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Immigrazione

confusedvision via Flickr

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“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro Paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione ”.

Tratto da una relazione stilata dall’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, ottobre 1912
(fonte: Sinistra e Libertà).

Dove ca**o sono i diritti umani?

L’attacco alla Striscia di Gaza va avanti ormai da oltre 10 giorni. Da oltre 5 i militari istraeliani sono sul terreno, impegnati in una minuziosa perquisizione, casa per casa, di tutta la zona.
Potremmo immaginare che questo possa significare maggior precisione nell’azione: niente più bombe che cadono alla cieca sul terreno, massacrando indifferentemente civili e miliziani di hamas, ma un preciso “uomo contro uomo” che limiti le perdite di civili e agisca invece con maggior efficacia contro il nemico dichiarato.
Invece basta fare un rapido calcolo per scoprire che la realtà è ben lontana da questa speranza: se al momento dell’ingresso dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza i morti erano su per giù 400, oggi (5 giorni su 10 dopo) i morti sono oltre 730. Ora o gli israeliani sparano a caso su tutto quel che si muove, oppure c’è qualcosa che non quadra… Amnesty International nel frattempo denuncia l’uso dei civili come scudi umani da parte di entrambe le parti e chiede (inutilmente) un intervento più deciso dell’Europa nella risoluzione di questo conflitto.

La magnanimità israeliana, in tutto questo contesto di morte e sfacelo, di “crisi umanitaria totale” (come l’ha definita la Croce Rossa) ha concesso un “corridoio umanitario” (una tregua, una sospensione del fuoco) di 3 ore al giorno durante il quale nella Striscia possono affluire i necessari aiuti umanitari. Salvo poi sentirsi comunque esplosioni anche durante il “periodo di tregua” e scoprire che ad essere colpito è stato proprio uno dei convogli dell’ONU (in cui ha trovato la morte l’autista del mezzo colpito) che per “rappresaglia” ha sospeso l’invio di aiuti, assolutamente vitali per i civili.
Sempre l’ONU ha visto colpita, ieri, anche una sua scuola in cui avevano trovato rifugio alcuni profughi (tra cui numerosi bambini), episodio in cui hanno trovato la morte 40 persone.

In altri contesti di guerra (un esempio su tutti, Libano 2008?) era bastato molto meno per inviare sul territorio una forza di interposizione che mettesse fine alla mattanza. Con questa guerra invece, visto che gli Stati Uniti tentennano (attendono in realtà che Israele abbia raggiunto i suoi obiettivi?), nessuno muove un dito e anche la diplomazia va a rilento.

Viene quasi da ridere al pensiero che in Italia, nel frattempo, stiamo trattando perché Malpensa non perda il suo stato di hub

Dove sono finiti i diritti umani? Dove sono i paladini della giustizia e della pace che fino a ieri si vantavano di aver portato la pace nel mondo? Non ho parole…

E se Obama fosse stato in Italia?

greetings from Sen. Obama (Barack Obama in Austin #5) Ebbene alla fine il gran giorno è arrivato: Barack Hussein Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti (sarà in realtà ufficialmente in carica dal prossimo 20 gennaio), facendo letteralmente man bassa di voti (349 contro 147), accompagnato da una sonante vittoria democratica anche al Senato, senza la quale Obama avrebbe avuto le mani legate.
L’America (o per meglio dire gli Stati Uniti d’America) ha dimostrato di voler cambiare, di voler girare pagina ed aprire un nuovo capitolo. Ora l’importante sarà vedere Obama al lavoro, chiamato a confermare i buoni propositi annunciati in campagna elettorale e verificare come questo verrà recepito dall’opinione pubblica statunitense.

L’attesa che si era creata intorno a questa tornata elettorale, pur giustificata, aveva raggiunto livelli davvero parossistici anche nel nostro paese, dove nonostante la spiccata tendenza al centro-destra (Berlusconi gode secondo i sondaggi di percentuali di gradimento non trascurabili), ci si augurava in lungo ed in largo una vittoria del candidato democratico: un po’ come dire, citando un noto comico, “sono tutti comunisti col culo degli altri”.

Curioso notare come da tutto il fronte politico internazionale siano arrivate congratulazioni e parole di speranza (ma fino a ieri non stavano tutti a braccetto con Bush?), compreso il nostro Presidente del Consiglio (che ha già dimenticato la fratellanza con il presidente uscente): tradiscono però la reale posizione del nostro paese le parole di Gasparri di questa mattina:

Sulla lotta al terrorismo internazionale vedremo Obama alla prova, perché questo è il vero banco di prova. Gli Stati Uniti sono la democrazia di riferimento, portatrice di valori minacciati dal terrorismo e dal fondamentalismo islamico. Su Obama gravano molti interrogativi; con Obama alla Casa Bianca forse Al Qaeda è più contenta.

Insomma, parole gravi (fosse la prima volta che il nostro governo si sbilancia in questo modo per voce di qualcuno dei tirapiedi di Silvio) che parlano da sole, ma proprio queste parole mi fanno riflettere su cosa sarebbe successo se Obama fosse stato chiamato a fare campagna elettorale nel nostro paese
Si sarebbe trovato di fronte ad attacchi da ogni fronte, infarciti di colpi bassi e di demagogia spicciola. Il suo avversario alle presidenziali USA, John McCain, è stato talmente leale in campagna elettorale da schierarsi apertamente contro alcune frange estremiste del suo partito quando queste spingevano su un attacco razzista nei confronti del candidato democratico: in Italia si sarebbe probabilmente soffiato sul fuoco, aizzando la folla.

Questa è la differenza tra l’Italia e gli USA, oggi.

La geopolitica torna a far paura?

Big Red Button Il recente “conflitto lampo” (come qualcuno lo ha definito, facendomi rabbrividire al pensiero della guerra lampo nazista del 1939) tra Russia e Georgia ha portato ad un ulteriore aumento della tensione internazionale portandolo a livelli che non vedevamo da molti, moltissimi anni, diciamo dal crollo dell’Unione Sovietica, dai tempi della Guerra Fredda; il clima che si respira tra le due fazioni contrapposte (Russia da una parte, Stati Uniti e Nato dall’altra, proprio come accadeva nella Guerra Fredda postbellica) è infatti di quelli che ormai molti avevano dimenticato (ed i più giovani, nemmeno mai vissuto).
Tra minacce, sanzioni e prove di forza, dichiarazioni di fuoco ed appelli alla distensione, è stata in questi giorni indetta una una riunione tra i rappresentanti dei paesi dell’Unione Europea per discutere della questione georgiana, (che avrà luogo poi questo lunedi, a Bruxelles) in seguito alla quale potremo probabilmente capire qualcosa di più su quella che sarà la posizione ufficiale dell’Europa in questo nuovo contesto, così come su quali misure pratiche l’Unione vorrà adottare nei confronti della Russia, in seguito a quanto accaduto nel Caucaso meridionale, poco più di tre settimane fà.

La pace tra i due blocchi e la distensione dei rapporti internazionali si è nutrita in questi anni della debolezza politica e (soprattutto) economica della Russia: oggi che questa comincia a risollevarsi, ritrovando vigore e conseguentemente peso politico sul piano internazionale, tutto rischia nuovamente di precipitare nell’incubo dell’ultimo dopoguerra, con le battaglie condotte “dietro le quinte” (l’appoggio statunitense alla Georgia non era certo una novità, tantomeno a Mosca, che pure non ha esitato ad aprire il fuoco), magari una nuova ondata di quel “colonialismo ideologico” che porta a considerare “amiche” anche le peggiori forme di dittatura, a patto che appoggino il proprio blocco e non l’avversario.

La riapertura del conflitto freddo è ormai diventata ben più che una semplice paura: siamo realmente entrati (già da diversi anni) in una nuova fase della Guerra Fredda, ricominciando a scrivere su un libro che pareva ormai aver trovato al sua fine con la “Distensione” (che potrebbe tra qualche anno essere descritta come un semplice “errore di denominazione” per indicare una fase di momentaneo declino di uno dei due blocchi, che ha per qualche tempo agevolato la crescita e il predominio dell’altro). Il riacuirsi della tensione tra i due blocchi, infatti, non è una novità: sin dal 2003, con la decisa presa di posizione della Russia sulla questione irachena, si era tornati a “scavare la trincea”, poi divenuta più profonda con la questione dello “scudo spaziale” (tutt’ora fulcro di tutta la faccenda) ed ulteriormente aggravata dalla trasformazione della Russia in una forma di dittatura da parte di Putin, che nel 2007 ha assunto il potere assoluto, conquistando anche la maggioranza nel parlamento Russo (la Duma) con modalità non esattamente democratiche, con il conseguente ritiro unilaterla dell’adesione al Trattato di riduzione/controllo delle armi convenzionali precedentemente firmato con l’Europa e la restaurazione dei voli strategici permanenti a lungo raggio su Europa, Pacifico ed Atlantico.

Non sarebbe corretto caricare sulle spalle della Russia l’intera colpa di quanto accaduto: in un contesto complesso come quello della politica internazionale, è sempre difficile individuare univocamente un colpevole; la “nuova politica espansionistica” condotta da Goerge W. Bush alla guida degli Stati Uniti, non ha certo aiutato in questo frangente, men che meno se consideriamo l’ostinata intenzione di installare un sistema missilistico in Europa dell’Est, dove chiaramente ha il solo scopo di tenere sotto controllo la Russia, che certo non gradisce il sentirsi messa sotto scacco. Anche l’immaturità politica dell’Europa (che, ricordiamolo, non riesce ad oggi neppure a dotarsi di una costituzione comune, figuriamoci di una politica internazionale univoca) ha dato il suo contributo al riaprirsi di questa condizione di instabilità geopolitica.
Non possiamo che rimanere in “fiduciosa” attesa, coscenti che è in ballo ben più che una piccola ripicca territoriale tra Georgia, Ossezia e Abcasia, soprattutto coscenti che in questo delicato momento della politica internazionale, il nostro Paese si trova sotto la guida di una fazione politica che pensa principalmente ai fatti propri (che in questo caso esula dalla trattazione).

Mi posso solo augurare che quelle raccolte in questo post si rivelino solo pessimistiche congetture, che tutti si sgonfi grazie al connubio tra una maggiore maturità politica dell’Unione Europea da una parte (che nonostante non si sia ancora dotata di una politica estera comune, non si trova certo nelle stesse disperate condizioni in cui si trovava nel 1945), e le le nuove elezioni alla presidenza degli Stati Uniti dall’altra; proprio quest’ultimo evento segnerà irrimediabilmente il corso della storia del prossimo decennio (esattamente come la presidenza di Bush ha segnato irrimediabilmente quello che si sta concludendo, che vede nel Medio Oriente lo scenario principale e il motto “guerra preventiva” come leitmotif): se il vincitore sarà Obama, è facile aspettarsi un ritorno ad una condizione di distensione, se invece il vincitore sarà McCain, bisognerà capire quanto sarà influenzato da quelle correnti conservatrici che oggi guidano il presidente Bush.
Ancora una volta, volenti o meno, il mondo è nelle mani dei cittadini americani…

A chi giova una nuova Guerra Fredda?

Titan missile in its silo Gli Stati Uniti d’America, sotto la guida del loro presidente George W. Bush si stanno comportando (di più in più con il passare degli anni) in modo dubbio nei confronti di tutta una serie di realtà, prima tra tutti la Russia. Spiccano su tutte, una serie di azioni:

  • Promozione della Guerra in Iraq, nonostante il parere fortemente contrario da parte della Russia
  • Sostegno alla separazione del Kosovo, in contrasto con la posizione della Russia
  • Spinta per l’allargamento a est della Nato, includendo Ucraina e Georgia, che vede la Russia profondamente contraria
  • Allestimento (nonostante e contro il parere di Mosca) dello “scudo missilistico” nell’est Europa

Il pretesto per molte di queste misure è, come ormai prassi, la lotta al terrorismo internazionale (che oggi prende il nome di Iran), al quale Putin e la Russia credono poco. In compenso nell’ex Unione Sovietica si sentono pesantemente minacciati,  al punto che quest’oggi Putin ha apertamente dichiarato che (nonostante non sia possibile una “nuova guerra fredda”) la Russia sarà costretta a “prendere contromisure” in risposta all’allargamento della Nato all’interno dei territori dell’ex Unione Sovietica.

La situazione non è rosea, e possiamo solo augurarci che al cambio di presidenza negli USA faccia seguito un periodo di maggior attenzione al panorama politico internazionale. Perché però nutro forti dubbi che capiterà? 😦

Università USA: l’ennesima strage annunciata

Davis Hall Geography and Geology Building Dopo la famosa vicenda di Columbine ed a meno di 12 mesi dalla strage del campus universitario di Blacksburg della Virginia Tech University, negli Stati Uniti si torna a morire nelle università. Questa volta la sorte è toccata agli studenti della Northern Illinois University di Dekalb, contro i quali è esplosa la rabbia di un ex-studente dell’università per motivi ancora ignoti.

L’uomo, Stephen Kazmierczak, è entrato da una porta laterale di una delle affollate sale nella quale si stava svolgendo una lezione, è salito sul podio dove si trovava l’insegnante, e con calma e sangue freddo ha sparato in rapida successione verso gli studenti, uccidendone cinque e ferendone altri sedici (alcuni di quali in modo grave), prima di togliersi la vita.

Purtroppo neppure questa volta il bagno di sangue porterà gli Stati Uniti ad adottare una più oculata legislazione sull’uso e sulla circolazione delle armi: le lobby dei produttori, infatti, colgono ogni occasione (comprese queste) per incitare ulteriormente alla violenza, affermando ad esempio che se gli studenti dell’aula fossero stati armati, avrebbero potuto difendersi. Quello che continuano a non capire, in effetti, è che il tempo del selvaggio west è finito, che la risposta alla violenza non è “ancora più violenza” (e soprattutto, immagino, “ancora più soldi” per loro).

Possiamo sperare che Obama e/o la Clinton si pronuncino nei prossimi giorni in questo senso?

Surriscaldamento globale: ancora dubbi!?

Global Warming La comunità scientifica suona campanelli d’allarme ormai da parecchi anni. Abbiamo persino potuto sentire con mano gli effetti del surriscaldamento globale: oggi stesso, 14 febbraio, fuori c’è un sole che solo 20 anni fa avremmo visto (forse) ad aprile inoltrato… Assistiamo periodicamente all’aumentare in numeri e forza dei tifoni atlantici, che dopo New Orleans continuano a spazzare e distruggere le coste americane (e non solo quelle), le immagini scattate a pochi anni di distanza dei ghiacciai di casa nostra, mostrano con una chiarezza ed una nitidezza incredibili gli effetti devastanti dell’opera dell’uomo.

Eppure, c’è ancora chi nutre dubbi (e a volte nemmeno quelli) sul riscaldamento globale. Verrebbe da chiedersi perché, se non fosse che la strategia è di una chiarezza, di una nitidezza cristallina e la sua messa in opera potrebbe essere ricondotta ai peggiori nemici dei supereroi dei fumetti, se non fosse tutto drammaticamente reale.

Senza voler andare a mettere in mezzo complotti internazionali, appare piuttosto chiaro come una serie di aziende (e governi di importanti superpotenze militari) abbiano negli ultimi anni promosso, e pagato profumatamente, studi scientifici che avevano come unico scopo quello di mettere in discussione le allarmanti conclusioni a cui giungevano, un po’ alla volta, gli scienziati, con il preciso scopo di confondere se non l’opinione scientifica, quantomeno quella pubblica.
Questa strategia di inquinamento è talmente palese che un’autorevole rivista scientifica (di cui, perdonate, non ricordo il nome) scrisse non molto tempo fà una lettera aperta alle compagnie petrolifere e al governo statunitense chiedendone la fine.

Ci troviamo di fronte alla stessa strategia messa in campo per negare i danni prodotti dal fumo: negli ultimi 50 anni, le aziende del tabacco hanno sventolato numerosi studi “scientifici” dimostranti come non ci fosse alcuna correlazione tra il fumo delle sigarette da loro vendute e l’insorgere dei tumori, nonostante l’incidenza di questi ultimi sulla popolazione fumatrice fosse alquanto preoccupante. Oggi, a 50 anni di distanza, sappiamo bene che fumare fa male.

Ma il nostro pianeta può permettersi altri 50 anni di scellerato inquinamento come quello che abbiamo riversato nell’atmosfera negli ultimi 10? Il grido d’allarme della nostra comunità scientifica si leva alto, ma nelle nostre orecchie risuona poderoso il rumore di disturbo di coloro che sull’inquinamento basano le proprie ricchezze…

Al Gore – L’assalto alla ragione

Immagine di L'assalto alla ragioneIn questo momento di instabilità politica, il libro di Al Gore era proprio quello che serviva. Pur avendo numerosi difetti, infatti, “L’assalto alla ragione” è un pensiero profondo e ben ragionato sul mondo della politica (americana, ma si adatta molto bene anche a quella italiana), sui cambiamenti che sta subendo la nostra visione della democrazia nell’era dell’informazione verticale, sulle prospettive future, legate anche all’avvento di internet e delle incredibili possibilità partecipative che offre.

Gore affronta argomenti delicati come manipolazione mediatica, potere economico, politico, ecologia, guerra, democrazia, in un vortice di informazioni e citazioni. Non tutte le ciambelle, purtroppo, riescono col buco perfettamente tondo: il libro è decisamente scritto per un pubblico “d’oltreoceano”, e risulta ripetitivo in numerosi passaggi, oltre che particolarmente pesante da leggere.

Unico dettaglio che mi ha lasciato davvero perplesso, sono i riferimenti alla politica estera: Bush è decisamente un uomo di destra, e propugna l’egemonia statunitense. Mi aspettavo che Gore, uomo di sinistra, adottasse un atteggiamento diverso e invece nel libro mi trovo a leggere di “diffusione di valori” e di “democrazia”. Anche nella campagna elettorale attualmente in corso, ne la Clinton ne Obama si sono pronunciati per una distensione delle relazioni di politica estera: che sia un atteggiamento “tipico”?

Commento su Anobii.com:

Gore affronta argomenti delicati come manipolazione mediatica, potere economico, politico, ecologia, guerra, democrazia, in un vortice di informazioni e citazioni. Non tutte le ciambelle, purtroppo, riescono col buco perfettamente tondo: il libro è decisamente scritto per un pubblico “d’oltreoceano”, e risulta ripetitivo in numerosi passaggi, oltre che particolarmente pesante da leggere.

Giustizia per Kassim

kassim-britel.jpgA maggio del 2002 Abou Elkassim Britel, cittadino italiano, è stato ammanettato, incappucciato, denudato e (incatenato e vestito di un pannolino) caricato a forza su uno dei “voli segreti” della CIA, che lo ha portato dal Pakistan in Marocco, dove è stato rinchiuso in un carcere e ripetutamente torturato.
Liberato un anno dopo, senza accuse, si apprestava a rientrare in Italia, dalla moglie Khadija, quando è stato nuovamente rapito e fatto sparire (stavolta complici i nostri servizi segreti), dando il via ad altri 4 mesi di detenzione, violenze e torture. Il processo per “terrorismo” subito in Marocco, senza alcuna forma di garanzia legale, lo ha visto condannare dapprima a 15, poi a 9 anni di carcere, pena che sta attualmente scondando a Casablanca, e che terminerà nel 2012.

Dal 16 novembre, non più disposto a tollerare la situazione nella quale è stato calato, Kassim ha cominciato uno sciopero della fame, che dura ancora oggi.

L’indagine italiana parallela a quella marocchina, è stata archiviata perchè “il fatto non sussiste”. Il Parlamento Europeo ha sollecitato il governo italiano a prendere misure concrete su questo versante, ma il Governo Italiano (sia quello precedente che quello attuale) tace spudoratamente.

Cosi come, sulla vicenda, tacciono spudoratamente (e colpevolmente, secondo me) anche la stragrande maggioranza dei mass media. Questo spazio non sarà il Corriere della Sera, ma è un inizio: è un modo per rendere, almeno una volta, realmente utile questo misero blog.

Giustizia per Kassim!

La società internazionale che fà?

Secretary of Defense Rumsfeld and President Musharraf, 2002 by Helene C. Stikkel (020213-D-2987S-057 DOD) Il tema degli ultimi mesi, per chi non se ne fosse accorto, è quello della violenza e della repressione. A partire dal Myanmar, a fine settembre, quando stampa ed opinione pubblica si mobilitarono (insieme all’ONU tra l’altro) affinché la situazione tornasse sotto controllo, passando per il Pakistan dove la situazione non è certo paradisiaca, con il presidente e capo dell’esercito (fino a ieri) Musharraf ha sedato violentemente numerose proteste e supportato con la violenza (e chiudendo la bocca con gli arresti domiciliari alla maggior parte dei suoi avversari politici) la sua candidatura a presidente, terminando nelle Filippine con il tentato colpo di stato di ieri, il “virus” della violenza e della repressione sembra diffondersi con preoccupante rapidità.

La comunità internazionale, a parole impegnata dalla notte dei tempi per la difesa della democrazia (con tutti i dubbi che questa idea si porta dietro), della libertà d’espressione, al punto da intaccare in diversi casi anche il diritto di sovranità ed autodeterminazione dei popoli “oppressi”, come sta reagendo a questa situazione?

Dopo aver pesantemente attaccato verbalmente il Myanmar, minacciando sanzioni nel caso in cui la repressione avesse continuato sui toni dei giorni più caldi, si è lentamente defilata sotto le pressioni di Russia e Cina, lasciando cadere nel dimenticatoio, un po’ alla volta, la questione.
Ieri, di fronte al giuramento per il secondo mandato del presidente Musharraf, che nonostante abbia rinunciato alle cariche militari, non può certo vantarsi di aver vinto elezioni democratiche, si è levato un coro unanime di compiacimento ed auguri al “neoeletto” da parte dei vari capi di stato, a partire da quello degli Stati Uniti, George W. Bush, che ha espresso “fiducia” nei confronti di Musharraf.
A me pare onestamente una situazione un po’ assurda, ma d’altra parte il Pakistan è una pedina centrale nello scacchiere strategico statunitense della lotta al terronismo islamico (no, non è un lapsus), e pertanto deve essere appoggiato dalla comunità internazionale, che sia o meno una dittatura.

Il mondo si divide in “buoni” e “cattivi”, dove i “buoni” siamo noi, e tutti gli altri, sono “i cattivi”, da odiare e (possibilmente) combattere?