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Contributo sulla questione libica

Bene, siamo in guerra, che che ne dica il presidente Napolitano. Siamo ufficialmente in guerra anche perché i nostri aerei hanno attivamente partecipato (anche se a scopo “logistico”) ad un’azione militare, non ci siamo limitati a fornire le basi aeree. Siamo ufficialmente in guerra (ed in aperta violazione della costituzione italiana) perché le azioni di guerra intraprese, da ieri, vanno ben oltre quanto previsto dalla risoluzione ONU, che prevedeva il solo mantenimento di una “no fly zone” (e quindi senza attacchi preventivi).Siamo ufficialmente in guerra. Non voglio in questo frangente entrare nel merito dell’essere più o meno a favore dell’aggressione alla Libia, ritengo che sia un impegno difficile e non sono sicuro di aver trovato un punto di equilibrio, in merito. Vorrei invece fare un accenno al contesto generale in cui si sta muovendo la “coalizione internazionale”: l’ONU ha decretato, con voto non contrario anche di Russia e Cina, che il suo ruolo è quello di proteggere i civili dalle violenze che vengono spesso perpetrate dai governanti (più o meno democraticamente eletti). Ruolo legittimo (da vedere se condivisibile o meno), ma che si presta ad un’aperta critica: perché la Libia si e non il Darfur? Perché non la Somalia? Perché non il Ruanda? Perché non il Nepal? Dobbiamo aspettarci, nei prossimi anni, una maggior propensione da parte delle forze armate di NATO e Nazioni Unite a fare da forza di interposizione a protezione delle popolazioni civili di tutto il mondo, oppure come accaduto in Iraq ed Afghanistan sono soprattutto gli interessi economici a fare da motore e la risoluzione dell’ONU altro non è che la foglia di fico a coprire le nostre vergogne?

Per l’ONU questi sono anni difficili, da un lato perché il diritto di veto degli stati più grandi porta spesso e volentieri l’organizzazione ad una sostanziale paralisi, dall’altro perché sempre più spesso sembra essere utilizzata per giustificare a posteriori azioni di vera e propria guerra. Sarà bene che la comunità internazionale faccia una profonda riflessione su ciò che vogliamo che l’ONU sia, e che prenda i provvedimenti necessari a garantirgli indipendenza ed un funzionamento democratico…

La crisi Greca ci restituisce un’Europa monca

Parlamento Europeo

SordaCadencia via Flickr

Ora che sul fronte degli aiuti alla Grecia comincia ad intravvedersi quella che pare essere la strategia definitiva degli Stati Membri, è forse giunto il momento di fare il punto su come questa difficile fase sia stata gestita e sul cosa avrebbe consentito di affrontarla in modo più efficace. Purtroppo il riquadro che ne emerge è tutto fu0rché lusinghiero, mettendo in risalto alcune gravi lacune che sono state (volontariamente) create nel Sistema Europa e che dovranno vedere un impegno ed uno sforzo notevole da parte degli Stati Membri affinché siano colmate.

  • In primis, c’è sicuramente la questione del ritorno politico: negli ultimi anni l’Unione Europea è stata culturalmente accantonata in molti Stati Membri (tra cui naturalmente anche l’Italia) a giovamento della politica nazionale; gli esponenti principali ed i leader dei vari partiti nazionali si dedicano essenzialmente alla politica locale, mentre al Parlamento Europeo vengono di solito inviati “giovani a farsi le ossa” o “confinati”. L’Europa perde così d’importanza nel comune sentire dei cittadini europei e diviene difficile spiegare ed ottenere consenso su temi comunitari, come a fagiolo gli aiuti economici alla Grecia, ma lo si era visto non molto tempo addietro con i numerosi “no” referendari alla Costituzione Europea (guarda un po’, proprio uno dei paesi che oggi maggiormente si gioverebbe di una presenza Europea più forte è quell’Irlanda che fu tra le prime a rinnegare l’adesione alla Costituzione Europea).
    Proprio in questi ultimissimi anni, possiamo trovare lampanti esempi di come la politica nazionale abbia cercato di svuotare di potere la politica europea, manovra che oggi si è rivelata drammaticamente errata: la conferma di Barroso, l’elezione della Ashton a Ministro degli Esteri europeo, l’affondamento di alcune parti del Trattato di Lisbona; gli Stati Membri hanno cercato un’Unione che non li disturbasse troppo, e ora che invece servirebbe un potere forte, se ne sente la drammatica mancanza.
    Nel caso Grecia, questo si è visto in modo piuttosto marcato da parte della Germania, dove il cancelliere Angela Merkel ha cercato prima di tutto di massimizzare il consenso elettorale (si è votato in questi giorni in alcuni Lander), con l’unico risultato (le elezioni le ha perse) di agire con meno tempestività, efficacia e saggezza di quanto non fosse necessario (e richiesto ad uno stato forte ed importante per l’Europa come quello che la Merkel guida), portando così ad un ulteriore aggravio della crisi, inizialmente tutto fuorché ingestibile. Solo l’intervento del presidente degli Stati Uniti Obama a favore di un comportamento più responsabile ed unitario da parte dell’Europa ha un po’ rimesso il treno sui binari, facendoci giungere alla creazione del mastodontico fondo di garanzia che ieri ha fatto la gioia degli speculatori in borsa.
    Affinché anche le questioni comunitarie tornino ad avere un ritorno politico, è necessario che in Europa si torni a perseguire la “cultura dell’unità“, che sin dalle scuole primarie venga mostrato quanti e quali benefici hanno portato i vari stadi della costituzione dell’Europa Unita quale oggi la conosciamo.
  • Secondariamente ma legata sicuramente alla questione trattata precedentemente, c’è la totale mancanza di strumenti a disposizione del “Governo Europeo” (che, per l’appunto, non esiste) per agire nell’arginare gli effetti della crisi, aiutare la Grecia ed evitare “il contagio”: il fondo di garanzia viene non per nulla istituito dalla BCE, la quale non può che “raccomandare” agli Stati Membri un maggior controllo sui conti pubblici, suggerendo norme di austerità che consentano di superare “indenni” (pagheranno i cittadini, come sempre, visto che si prevede già un ulteriore aumento della disoccupazione) questo periodo difficile. Non ci sono strumenti efficaci per andare a risolvere alla radice le cause della crisi: non si può stimolare la crescita, non si può intervenire a livello comunitario sulle politiche economiche ed industriali e via discorrendo.
    Il tanto denigrato Romano Prodi sta da anni spingendo per la formazione di istituzioni europee che abbiano il potere di incidere sulle politiche degli Stati Membri, ma queste istanze sono sempre state rifiutate in quanto considerate “scomode” ingerenze. Oggi vediamo per la prima volta gli effetti dell’assenza di questi strumenti. Purtroppo affinché si torni sui propri passi e si imbocchi una via più saggia, bisognerà che i politici alla guida dei vari Stati membri si facciano una profonda analisi di coscienza e rinuncino al loro ruolo di prime donne in favore di una maggior presenza dell’Europa unita all’interno della politica nazionale.

Purtroppo se il panorama politico assomiglia anche solo lontanamente a quello italiano, rischiamo che tutto ciò venga rimandato alle calende greche…

L’arresto di Aung San Suu Kyi

tap tap tap via Flickr

"tap tap tap" via Flickr

Nonostante la notizia sia passata in sordina, qui da noi, rispetto alla polemica sulle iniziative razziste e xenofobe del nostro governo, Aung San Suu Kyi è tornata in carcere. Curioso notare come ci sia tornata proprio quando stava per concludere la sua pena agli arresti domiciliari (il 27 maggio), nonché proprio quando alcuni collaboratori del premio Nobel per la pace avevano fatto presente alcuni suoi gravi problemi di salute (nella fattispecie chiedendo che il medico della San Suu Kyi, anch’esso incarcerato, le potesse fare visita).

Possiamo ovviamente supporre, senza rischiare di sbagliarci, che la San Suu Kyi verrà trattata con il massimo riguardo e cura (soprattutto viste le sue precarie condizioni fisiche) dalle autorità Birmane, che tengono moltissimo al che la San Suu Kyi partecipi (e possibilmente vinca) le ormai prossime elezioni in Birmania (2010).

Infine è simpatico sapere che la San Suu Kyi è stata posta in stato di arresto in quanto un misterioso americano di origine (pare) vietnamita, del quale non si sa nulla (neppure l’ambasciatore americano in Birmania sa nulla), avrebbe raggiunto a nuoto la casa della Kyi e vi si sarebbe trattenuto per ben tre giorni (proprio a ridosso della liberazione, che coincidenza!). Un errore imperdonabile per la sessantatreenne attivista Birmana (in isolamento a Rangoon dal 2003, ma sostanzialmente priva di libertà dal 1990, ovvero dall’anno in cui vinse in modo schiacciante le ultime elezioni), che ora rischia dai tre ai cinque anni di reclusione.

Delle Olimpiadi di Pechino e delle loro conseguenze

Beijing National Olympic Stadium 14 Sono terminate, ormai da diversi giorni, le Olimpiadi cinesi. Si è trattato indubbiamente di una delle edizioni più discusse (anche se in generale l’evento olimpico si presta parecchio alle polemiche) , prima e durante il suo svolgimento: dapprima la questione tibetana, con gli appelli al rispetto dei diritti umani e le minacce di boicottaggio, poi con la questione russo-georgiana, con le polemiche legate all’arbitraggio, all’età di alcuni dei partecipanti (pare piuttosto inferiore ai 16 anni minimi previsti dal regolamento). Come tutti gli eventi però, la parte fondamentale da analizzare (e che solitamente rimane poi quella meno trattata) è costituta dalle conseguenze, sicuramente più durevoli nel tempo che non la diatriba sull’età di questa o quella ginnasta locale, o sull’opportunità o meno di assegnare l’ottavo oro a Phelps.

Indubbiamente il primo aspetto da trattare è quello legato al boicottaggio ed alla questione del rispetto dei diritti umani in Cina. Come avevo già avuto modo di dire abbondantemente prima dell’inizio dei giochi, l’unica occasione per intervenire concretamente sulla questione, consisteva nel rifiutare la candidatura cinese per i giochi del 2008: che senso può avere assegnare i giochi olimpici alla Cina (ben conoscendo la situazione politica e sociale del Paese) e poi urlare allo scandalo e minacciare boicottaggi? Soprattutto facendolo coscienti che per motivi politici ed economici la cerimonia d’apertura non avrebbe potuto in ogni caso essere realmente boicottata (avete pensato a che conseguenze potrebbe avere un “irrigidimento” delle importazioni e/o esportazioni di un colosso dell’economia mondiale come la Cina?). Ogni pressione successiva all’assegnazione dei giochi è stata come si poteva prevedere, agevolmente aggirata dal governo (ad esempio il CIO aveva imposto alla Cina di sospendere i sistemi di censura di internet per tutto lo svolgimento delle olimpiadi, cosa che a quanto ne so’ è stata bellamente ignorata dagli organizzatori, senza incorrere per altro in particolari sanzioni).
Indubbiamente le Olimpiadi sono servite a risvegliare l’attenzione dei mass media e della società civile sulla questione tibetana, ma proprio l’attenzione dedicata al Tibet ha tolto il fuoco degli obiettivi sul rispetto dei diritti umani all’interno della Cina (non solo in Tibet vengono violati), dalla questione del rispetto della privacy e della censura, dalle persecuzioni che ancora vengono attuate a discapito di minoranze religiose nel paese: gli organizzatori hanno sapientemente riportato l’attenzione sui giochi e messo così sufficientemente a tacere le proteste che sono pur continuate per tutta la durata dei giochi, tranquillamente ignorate dalla stampa internazionale presente sul posto.

Le Olimpiadi di Pechino hanno oltretutto costituito per il governo cinese un’ottima occasione per incrementare ulteriormente i sistemi tecnologici volti al controllo della popolazione: con la scusa infatti di garantire la sicurezza di spettatori ed atleti, sono stati chiesti alla popolazione cinese i soliti sacrifici in termini di privacy (gli stessi che vengono costantemente chiesti a noi “occidentali” in nome della lotta al terrorismo), consentendo l’installazione di tutta una serie di telecamere ed impianti di sorveglianza che, manco a dirlo, resteranno in funzione anche ora che i giochi olimpici sono terminati, andando così a rendere ancora più gravi i problemi esposti nel paragrafo precedente (violazione dei diritti umani, persecuzioni e via discorrendo)

La grande vittoria della Cina con queste olimpiadi, sotto ogni profilo, è indubbiamente quella dell’immagine: la Cina che emerge dalle Olimpiadi 2008 è forte e determinata, moderna ed “occidentale”. Sul piano mediatico interno, grazie alla fortissima propaganda del governo (paragonabile negli ultimi anni solo a quella della Cina di Mao), abbiamo assistito alla vittoria, olimpica (con la impressionante raccolta di ori) e politica, della Grande Cina (ricordiamo che per i cinesi la Cina non è un paese emergente, ma un paese che torna in primo piano sulla scena internazionale dopo aver dominato il mondo fino al XIX secolo). Vittoria conseguita per altro contro il resto del mondo, che tra minacce di boicottaggi e palesi atti d’accusa (ricordate la questione della torcia olimpica?) aveva tentato in ogni modo di fermare la rinascita politica del paese del sol levante, estorcendole ciò che spettava loro di diritto (i giochi, per l’appunto).
Sul piano internazionale invece, la Cina emerge rafforzata dai quindici giorni olimpici: alla resa dei conti, l’impressione è che le Olimpiadi abbiano avvallato di fatto le politiche attuate dalla Cina (dopotutto, ancora una volta, gliele abbiamo assegnate e si sono svolte, no?), consacrandola definitivamente tra i grandi paesi del mondo industrializzato (le minuscole sono volute). Come si potrà, ora, tenerli fuori ad esempio dal G8?

I “grandi” 8

Si è tenuto (e concluso), settimana scorsa, il 34° forum degli “otto paesi più industrializzati” (tecnicamente sarebbe un sette più uno, la Russia), che per l’occasione si sono dati appuntamento in Giappone, ad Hokaido, non lontano da Tokio.
USA, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada, più la Russia, si trovano infatti a cadenza annuale per discutere dei grandi problemi della geopolitica e definire i futuri assetti del mondo, forti del loro impatto sul PIL mondiale (fatto eccezione per il fatto che mancano i due paesi che da soli costituiscono quasi la metà della popolazione mondiale, India e Cina), della loro potenza militare e della loro influenza internazionale (gli italiani sono pregati di non ridere). Tra di loro troviamo il paese che ha dato vita all’enorme crisi finanziaria che sta coinvolgendo anche l’Europa (gli USA con la crisi dei subprime), un paese indebitato fino al collo (l’Italia), una pseudo-democrazia (la Russia). Le condizioni ideali, insomma, per essere incisivi in un momento così delicato della Terra, al punto da potersene tranquillamente infischiare del restante 75% della popolazione mondiale (e del 50% del prodotto mondiale lordo), al punto da poter prendere decisioni senza passare dal Consiglio Superiore delle Nazioni Unite, un approccio piuttosto “colonialista”, un po’ troppo simile per i miei gusti alla “spartizione del mondo di Yalta”.

Anche quest’anno, come sempre, sono state prese importanti decisioni riguardo la fame nel mondo, l’ecologia, l’aiuto internazionale verso i paesi più poveri. Preoccupati infatti dell’innalzamento del costo degli alimentari che sta mettendo in crisi numerosi popoli, hanno deciso di non agire con forza cambiando le regole a favore dei popoli in difficoltà. Preoccupati dalle ormai evidenti conseguenze del riscaldamento climatico del nostro pianeta, hanno proposto (salvo vedersi bocciare poi la proposta dalla Cina) di tagliare le emissioni di anidride carbonica del 50% entro il 2050 (mai, praticamente), spostando ulteriormente in avanti i paletti posti dall’Unione Europea che prevedeva un taglio del 20% entro il 2020.

Non condivido neppure l’approccio adottato nell’affrontare i problemi: tentare di redimere problemi strettamente legati gli uni dagli altri (perché il prezzo degli alimentari sarà mica legato al riscaldamento globale, al prezzo del petrolio ed alle crisi economiche in atto?) affrontandoli uno ad uno, incapaci di un’azione corale e coerente, mi pare fallimentare ancor prima di cominciare.

La mia domanda allora è: di fronte a decisioni di “questa portata”, di fronte all’emergere sempre più forte della Cina, qual’é oggi la funzione del G8? Anche se si decidesse di far rientrare la Cina in un G9, o si desse veramente vita al G20 di cui da tanti anni si và parlando, quale sarebbe la sua funzione ed in cosa si distinguerebbe dall’ONU? Il prossimo anno il G8 sarà nuovamente ospitato in Italia dopo Genova (stavolta alla Maddalena, pare). Oggi come allora, ci troviamo con un Governo Berlusconi: chissà se stavolta penserà alle fioriere o a consentire il diritto di manifestare in sicurezza…

Ou và l’Europe?

Europe TowerOn refait le monde” si sta rivelando una fonte davvero interessante di spunti per scrivere su queste pagine. L’altro ieri sera, la trasmissione radiofonica condotta, su RTL France, da Nicolas Poincaré vedeva ospiti (in una puntata speciale pensata per “festeggiare” degnamente l’inizio del semestre francese di presidenza dell’Unione) niente meno che Jean-Claude Juncker, primo ministro lussemburghese e già presidente della Commissione Europea, Laurent Fabius (ex primo ministro francese, paladino del “fronte del no” al referendum di ratifica della Costituzione Europea del 2005, nonché avversario di Ségolène Royal alle primarie per la presidenza della Repubblica del 2007) e Michel Barnier, già commissario europeo ed attuale importante consigliere del presidente Sarkozy, del cui governo riveste anche la carica di Ministro dell’Agricoltura.
Come spesso accade durante l’interessante trasmissione francese, i “toni dello scontro” si sono rivelati piuttosto accesi (soprattutto tra i due politici francesi, come prevedibile), rendendo il dibattito particolarmente vivace e costruttivo, sotto un certo profilo.

La domanda di fondo, alla luce di tutta una serie di eventi recenti, primo tra tutti il “no” irlandese alla ratifica del trattato di Lisbona, non riguarda solo i francesi, ma gli europei tutti: quale futuro per un’Europa sempre più immobile e divisa? Il dibattito in Italia è ovviamente (e fortunatamente per certi versi) concentrato su altre tematiche, ma non si deve assolutamente perdere di vista il fondamentale ruolo che l’Unione Europea riveste nella nostra vita, anche quella quotidiana.
Ecco che in quest’ottica, il “no” irlandese assume, almeno ai miei occhi, un significato che va ben al di là del mero problema “tecnico – politico” legato all’adozione del trattato, rimettendo invece in discussione il concetto e le modalità stesse che oggi costituiscono ciò che chiamiamo Unione Europea.

Se i nostri concittadini italiani fossero oggi chiamati alle urne per pronunciarsi sulla ratifica del trattato di Lisbona da parte del nostro governo, quale sarebbe il risultato? Quali paesi godono ad oggi di un tale sentimento europeista da poter essere ragionevolmente certi di un’approvazione popolare a simili provvedimenti (spesso complessi come quello in questione)? Naturalmente c’è poi da considerare il problema delle modalità referendarie: in Irlanda è stato accorpata l’approvazione dell’intero trattato di Lisbona (che presenta al suo interno oltre 40 diversi argomenti), subordinandolo ad un singolo voto binario, “si” o “no”, il che ha (a mio avviso) ridotto ulteriormente le già flebili probabilità che un simile referendum potesse giungere a felice conclusione, tenendo a mente anche i numerosi affondi dati dai referendum popolari alla Costituzione Europea (su tutti il “no” francese).

Ecco allora che diviene giustificata e comprensibile la proposta francese (ed in parte inclusa proprio nel trattato di Lisbona attualmente in fase di ratifica dai vari stati) di concepire un’Europa a “più velocità”, in cui sia cioè possibile che ogni stato decida a quali trattati aderire (Schengen ad esempio non è stato ratificato da alcuni paesi europei, tra cui l’Inghilterra, che non ha aderito finora neppure all’Euro), eventualmente restando “un passo indietro”, ma consentendo allo stesso tempo agli altri paesi di “procedere più velocemente” sulla strada scelta.
I problemi legati ad una simile soluzione sono essenzialmente di ordine pratico, con trattati che possono andare in conflitto tra di loro o dipendenze tra trattati differenti. I vantaggi invece, sarebbero decisamente importanti: immaginate cosa vorrebbe dire sbloccare finalmente la collaborazione a livello europeo (simile a quella già felicemente adottata per libera circolazione di cittadini e merci, l’Euro e via dicendo) su aspetti chiave quali ricerca ed innovazione, energia, ambiente, difesa, politica estera, persino sugli aspetti sociali e di politiche del lavoro. Tutto questo senza cancellare le identità nazionali (non è nelle intenzioni di nessuno quella di creare gli Stati Uniti d’Europa), senza rinunciare alle diversità, ma uniformando una piattaforma comune su questi aspetti, consentendo così la nascita di effetti “traino” e di scala.

Con l’inaugurazione (piuttosto colorita per altro) del semestre di presidenza francese alla guida dell’Unione Europea, si apre una fase cruciale: la presidenza infatti di un paese grande e importante come la Francia (così come vale per la Germania, ad esempio) consente un’azione decisamente più incisiva sul piano politico rispetto ad altri momenti della vita comunitaria. Sarkozy sembra lanciato nel tentativo di dare una “scossa” all’Unione, a poche settimane dalla “crisi” legata al “no” irlandese, una scossa che potrebbe non fare così male all’Unione.

Naturalmente nel frattempo noi italiani siamo troppo intenti a discutere sul come cancellare la magistratura…

Prima gaffe internazionale per Berlusconi

Silvio Berlusconi 1(frm italian prime) Si dice che “chi ben comincia…” e così, a nemmeno  24 ore di distanza dalla sua elezione a capo del governo, prima ancora di avere in mano i nomi dei ministri che per i prossimi cinque anni lo aiuteranno nell’arduo compito di rendere l’Italia un paese completamente invivibile, Silvio Berlusconi ha già ottenuto la prima delle perle da aggiungere alla sua collana (già ricca dopo gli ultimi anni), la prima gaffe internazionale della nuovo collezione.

In questo caso, ad essere stata presa di mira è la Spagna, sotto le spoglie del nuovo governo Zapatero che presentando 9 ministri donna su 15 totali è stato definito “troppo rosa” dal Cavaliere, durante un’intervista a Radio Montecarlo: “Nove donne! Se l’è cercata lui! Gli costerà dominarle”

Ovviamente irritata la replica da parte degli spagnoli che hanno decisamente più considerazione delle donne di quanta non se ne abbia in Italia (Berlusconi non è certo nuovo ad uscite come questa), che per bocca dell’ex vicepremier socialista Alfonso Guerra sono arrivati a dichiarare: “Ma Berlusconi non era un delinquente? Non c’è altro da dire.”

Come dargli torto? Ovviamente Berlusconi si è subito affrettato a dire che “è stato frainteso” (questi spagnoli che non capiscono mai niente), ma la reazione del governo spagnolo è il lampante esempio della considerazione della quale il nostro nuovo governo gode in Europa…

Saranno tempi duri…

O i tedeschi sono più attenti…

Bandiera tedesca / German flag … o proprio non me la spiego. Pochi giorni fa si è conclusa una tornata elettorale in Germania, con risultati che non è mia intenzione trattare. Particolarmente interessante, però, è l’andamento delle elezioni in Assia, dove Roland Koch, leader della CDU (partito di maggioranza) ha subito la sconfitta più pesante, perdendo oltre 12 punti percentuale rispetto al precedente voto del 2003. Il principale motivo della sconfitta di Koch, pare, è legato alla sua campagna elettorale completamente basata sul demagogico attacco agli immigrati: proprio l’impostazione della campagna non è stata gradita dagli elettori, che hanno punito Koch con una scoppola non indifferente.

Peccato che gli argomenti spesi da Koch in campagna elettorale non sono particolarmente dissimili da quelli che puntualmente il centro-destra italiano spende (in campagna elettorale e non), che vedono criminalità e immigrazione come temi centrali. Solo che gli italiani abboccano eccome alla demagogia del centro-destra.

Allora mi chiedo: sono i tedeschi ad essere particolarmente vispi, oppure gli italiani… ?

E’ il turno di Verhofstadt

Guy Verhofstadt Rieccoci a parlare di Belgio, di governi, di re e di litigi. Dopo 6 mesi di tentativi di formazione di un governo falliti per varie ragioni, dopo aver incaricato 2 volte Yves Leterme di tentare di formarlo, il Re del Belgio ha deciso che se la strada nuova proprio non va, meglio tentare con quella vecchia.

E cosi il premier “uscente” Guy Verhofstadt è stato incaricato di formare un governo ad interim, in pratica dando una forma definitiva e legislativamente accettabile alla reggenza del governo precedente. Uno degli incarichi del nuovo governo Verhofstadt sarebbe anche quello di abbozzare le riforme necessarie a dare maggiori poteri alle regioni, vero nucleo caldo della politica belga sul quale nessuno dei partiti coinvolti nelle trattative condotte da Leterme erano riusciti ad accordarsi, portando il paese ,in questa fase di stallo, molto vicino alla scissione tra le regioni fiamminghe e valloni, dopo 177 anni di unitaria indipendenza.

La concessione di poteri maggiori alle regioni (il Belgio ha una forma statale di tipo federato) è un nodo cruciale soprattutto per le regioni del nord, quelle fiamminghe, che forti della loro maggior ricchezza e dei loro 6 milioni di abitanti (su 10,4 che ne può vantare il Belgio nella sua totalità), vorrebbero avere potere di controllo del mercato del lavoro e sull’imposizione fiscale, ad oggi prerogative del governo centrale federale. Le regioni della Vallonia naturalmente, meno popolose e con un tasso globale di disoccupazione doppio rispetto a quello delle regioni più agiate, temono che una riforma del genere potrebbe danneggiarle economicamente.

Forse proprio la formazione di un governo di coalizione ampia auspicato dal Re con la nomina di Verhofstadt, che potrebbe portare nel governo i partiti dei socialisti e dei verdi, potrebbero consentire di non trasformare il governo federale in un guscio vuoto spolpato dall’interno pur arrivando ad una mediazione efficace del problema.

Alla fine, lasciano perdere

Le Palais Royal de Belgique Ebbene, rieccoci a scrivere del Belgio, ed in particolare della crisi politica che sta attraversando (ormai da sei lunghissimi mesi) il paese. Nonostante il silenzio della stampa italiana infatti, il Belgio è ancora senza un governo federale, e Yves Leterme che era stato incaricato di formarlo (in quanto vincitore delle elezioni svoltesi a giugno), ha deposto il mandato sabato 1 decembre, dichiarando che “non è possibile continuare senza accordi chiari”.

Le dimissioni di Leterme, accettate del re del Belgio Albert II,  seguono un ultimatum lanciato venerdì dallo stesso Leterme ai partiti con i quali cercava di arrivare alla formazione di governo, ponendo loro tre domande cruciali sul tavolo delle trattative, alle quali veniva data la possibilità di rispondere solo con un “si” o con un “no”. Evidentemente le risposte ricevute (in particolar modo quelle della formazione cristiano-democratica indicata dal portavoce di Leterme come la principale responsabile delle dimissioni) non devono essere piaciute a Leterme che ha quindi deciso di rassegnare, per la seconda volta in sei mesi, le sue dimissioni (il 23 agosto aveva rinunciato al suo ruolo di “formatore”, dopo alcune settimane di tese trattative con i politici francofoni).

Ora spetta a re Albert II muovere la prossima mossa: potrebbe assegnare, in mancanza di altre alternative, un ulteriore mandato a Leterme (che lo stesso Leterme ha fatto capire che sarebbe disposto ad accettare), oppure nominare un’altro incaricato.

Nel frattempo, la coalizione liberal-socialista continua nel suo ruolo di governo reggente, e da come si mettono le cose, rischia di continuare ad essere in carica fino alle elezioni regionali del 2009…