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Perchè è morto Shoya Tomizawa?

davedehetre via Flickr

Da domenica ad oggi, molti (troppi) hanno (s)parlato della morte di Shoya Tomizawa. Le questioni aperte sono diverse e mi concederete, da appassionato di moto e di corse, di esprimere il mio punto di vista, spero ancora una volta “leggermente fuori dal coro”.

In primis c’è naturalmente la questione della sospensione della gara: è stata (ed è) oggetto di polemiche feroci la decisione di non sospendere la gara (esponendo la bandiera rossa) per prestare i necessari soccorsi al pilota giapponese ed ai suoi due “compagni d’avventura”. Dal punto di vista della rapidità e della completezza dei soccorsi prestati, il commento dei medici di pista sembrerebbe portare un barlume di luce sulle motivazioni che hanno spinto nella direzione della “non sospensione”: non essendoci pericolo per i piloti che stavano girando (detriti particolari in pista, o pericolo per l’incolumità dei soccorritori stessi), trovandosi i piloti nelle vicinanze di un’ampia via di fuga ed in una posizione discretamente protetta, essendo proprio di fronte ad una delle postazioni dei medici di pista, le condizioni erano tali da consentire non tanto la prosecuzione della gara per “il bene dello spettacolo”, quanto per consentire all’ambulanza che inevitabilmente sarebbe dovuta intervenire di poter percorrere la pista senza essere intralciata dalle procedure scatenate dall’esposizione della bandiera rossa (rallentamenti, rientro ai box e via dicendo); su quest’ultimo punto mi permetto di esprimere un’opinione contraria a quanto affermato dai medici: un’ambulanza è un mezzo estremamente più lento degli altri mezzi in quel momento presenti in pista, che essendo per altro piccoli e maneggevoli come motociclette avrebbero procurato ben poco intralcio alle operazioni dell’ambulanza stessa. Inoltre, i movimenti dell’ambulanza in pista mentre le moto gli sfrecciano intorno non è esattamente l’emblema della “sicurezza”…

C’è poi da fare qualche considerazione sull’affermazione, più o meno largamente diffusa, che “è il gioco, la morte di un pilota ci sta”: che esistano professioni pericolose non è certo una novità. Quando muore un pompiere sul lavoro, o un poliziotto, ci si dice che per quanto dolorosa sia, è una morte “messa in conto”, considerata ed in qualche modo interiorizzata (che poi non è vero, gli incidenti capitano sempre “agli altri”).

Quello che è importante chiedersi è se sia stato fatto tutto il possibile per impedire che accadesse l’inevitabile, solo allora si può accettare la sentenza di “fatalità”. Per capire se la pista sia adeguata (ho sentito parlare di cordoli alti, erba sintetica troppo scivolosa e altre amenità tecniche da gente che non sa nemmeno di cosa stia parlando), basta analizzare la caduta del giapponese, non proprio semplice in primis perché la Dorna ha subito provveduto (sia salvato il Copyright!) a far rimuovere tutte le immagini da YouTube, in seguito perché le immagini a velocità “naturale” non sono chiare ed i rallenty di scarsa qualità (proprio perché siamo costretti ad affidarci a riprese di televisori e cose così) e tutte le fotosequenze partono da quando ormai il pilota ha già perso il controllo della moto. Da quello che si può vedere, Tomizawa tirava già al limite da alcuni giri (il taglio del cordolo al “Tramonto” ce ne da un indizio concreto). Quando arriva nell’inquadratura, Tomizawa è decisamente inclinato, al punto che ha un tentennamento, rialza la moto di qualche grado e si ributta poi (a traiettoria allargata) in curva; giunto sul cordolo, ed un buon mezzo metro prima di finire sull’incriminata “erba sintetica”, si vede chiaramente come l’anteriore “si chiuda”, buttandolo a terra (e la svirgolata nera che si vede chiaramente sul cordolo durante i video è probabilmente legata proprio all’anteriore del prototipo di Tomizawa), mentre il posteriore finisce sull’erba sintetica.
Si tratterebbe quindi davvero solo di una fatalità: fino a questo punto, infatti, sarebbe stato una banalissima caduta, di quelle che graffiano la tuta e poco più. Purtroppo il “trenino” che si era formato fa si che i due piloti che seguono da vicino Tomizawa gli finiscano addosso, di fatto uccidendolo. Poco c’entrano quindi il cordolo e l’erba sintetica (se ci fosse stata la sabbia, la moto si sarebbe ribaltata, ma non è detto che il giapponese non sarebbe ugualmente finito in mezzo alla pista, visto che è già caduto quando la moto finisce sull’erba sintetica). E’ difficile capire questa fatalità per chi non ha mai provato a guidare una moto sul filo del rasoio che è una piega ad alta velocità, chi non ha mai cercato il limite in circuito, chi non ha mai sentito il posteriore “ballare”  al limite del controllo dopo una staccata azzardata, o la moto “scodare” quando si riapre il gas in uscita di curva; la caduta da parte del gioco, la morte ci può stare (come ci può stare in molte altre occasioni, non penserete di essere al sicuro camminando per la strada!), ma l’importante è fare tutto il possibile per evitarla, a cominciare dal rimuovere gli ostacoli in pista. Per strada tutto è diverso, ovviamente, e all’attenzione alla quale sono chiamati i motociclisti (che troppo spesso vanno ben oltre ciò che le strutture stradali consentirebbero), andrebbe aggiunta maggior attenzione da parte di chi le progetta: i guard-rail ad esempio, taglienti come lame, andrebbero aggiornati prevedendo che non siano solo SUV a colpirli, una battaglia questa che da molte parti si continua a condurre, spinti dai numerosi motociclisti (e non solo) che ogni anno ne sono vittime…

La sicurezza in pista è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni: i morti ormai si contano sulle dita di una mano, al punto che nella massima serie, l’ultimo decesso in pista risale al 2003 (Daijiro Kato, anche in quel caso, nonostante il pilota si trovasse esanime a bordo pista, non fu esposta la bandiera rossa). Niente di nemmeno lontanamente paragonabile alle piste piene di pali, alberi e guard rail dei tempi passati. Naturalmente i progressi della tecnologia e dei regolamenti fanno (e faranno) si che i circuiti siano sempre più sicuri (eccezion fatta per il Tourist Trophy, dove il leggendario tracciato corre ancora per 61km in mezzo a case, alberi, marciapiedi, strade comunemente aperte al traffico, e ogni anno qualcuno ci rimette la vita, soprattutto i non professionisti, in pista nel così soprannominato “Mad Sunday”), che anche le cadute peggiori si risolvano con qualche frattura, ma non va mai dimenticato che quando si corre in moto a 300 all’ora, la morte è sempre in agguato…

La cosa che alla fine di tutto questo discorso lascia maggiormente perplessi, è ancora una volta legata alle bandiere rosse: una volta saputo della morte del giovane pilota giapponese (e pare che le indagini stiano rivelando come si sapesse già prima del suo trasferimento in ospedale a Rimini), che umanità possono avere i festeggiamenti per le vittorie, il non aver fermato la Moto2 e l’aver fatto partire comunque la MotoGP in programma poche ore dopo?

Coop promuove una forma di tortura?

Attenzione: questo post contiene informazioni dettagliate di alcune procedure di macellazione e di alcune pratiche di violenza su animali e potrebbe ferire la sensibilità di alcuni lettori. Vi invito a valutare la volontà di proseguire nella lettura.

Mucca al pascolo

Guido Andolfato via Flickr

La notizia mi era sfuggita, ma ci sono finito dritto contro su segnalazione questo pomeriggio: un centro commerciale della catena Coop di Roma ha aperto alla vendita di carne macellata secondo il rituale Halal, che consente alla carne di essere consumata dai musulmani.

Credo che per evitare spiacevoli fraintendimenti e per non venir inutilmente tacciato da “integralista”, vadano precisate due cose: in primis non ho assolutamente nulla contro i musulmani, anzi chi segue queste pagine sa bene quanto mi stia a cuore la questione della deriva razzista italiana. Secondariamente non sono vegetariano o vegano, mangio, e con un certo gusto, la carne più volte a settimana. La mia visione della questione è piuttosto complessa (come destino di tutte le cose lungamente ponderate) e cercherò di spiegarla più approfonditamente in futuro.

Ciò detto, entriamo nel merito della notizia, che a primo acchito (e nell’ignoranza dei termini) sembra innocua al punto da passare senza essere degnata di particolare interesse: la macellazione halal (che in arabo significa “lecito”) è una forma di macellazione rituale che consiste nel recidere la giugulare del bovino oggetto di macellazione affinché muoia dissanguato. Ci si limitasse a questa parte, la questione potrebbe divenire accettabile: d’altra parte anche gli animali uccisi in modo “tradizionale” subiscono una violenza, ma questo viene reso il meno doloroso possibile da una serie di accorgimenti quali lo stordimento tramite scariche elettriche. In alcune forme di macellazione rituale religiosa, invece, si ritiene che l’animale debba giungere cosciente al momento dello sgozzamento, il che non può che significare un’inutile e lunga agonia (nell’ordine di qualche ora), soprattutto nel caso in cui il primo taglio non riuscisse, essendo vietato un secondo “tentativo” (con conseguente allungamento delle sofferenze della bestia). Lo stordimento dell’animale non è di per se vietato dal Corano, ma non essendo esplicitamente concesso, viene purtroppo vietato in molti paesi.

Il fatto che il primo passo sia stata proprio di Coop, che negli ultimi anni è stata pioniera nel proporre prodotti biologici ed etici in vari settori (dall’alimentazione all’abbigliamento, per intenderci), mi lascia quantomeno colpito, soprattutto considerando che proprio l’attenzione della catena verso l’etica e la natura mi avevano spinto alcuni anni fa alla decisione di diventare “socio” (una scelta che generalmente non prendo alla leggera). Nel dubbio, ho scritto all’ufficio stampa di Coop, chiedendo spiegazioni.

Gentile XXXXXX,
sono un socio Coop (e sino ad oggi mi sono sempre ritenuto fiero di esserlo).
Mi ritengo un consumatore critico, acquisto carne preferibilmente di provenienza e macellazione italiana (riduzione della lunghezza della filiera), e frutta e verdura di stagione e possibilmente italiane: ho sempre trovato sotto questo aspetto, notevole conforto nella sensibilità di Coop in tema di ambiente ed ho espresso con i mezzi a mia disposizione il giusto apprezzamento per la nuova campagna verde di Coop, destinata alla promozione di prodotti biologici.
Mi è però recentemente giunta voce (il tam tam in rete è piuttosto veloce) che Coop stia promuovendo la vendita di carne macellata secondo il metodo Halal, che come ben saprete rappresenta per gli animali in questione una vera e propria tortura, costringendoli a lunghe (e soprattutto inutili) agonie prima della morte.

Le chiedo gentilmente di volermi confermare o smentire questa voce, ribadendo sin d’ora che in caso di risposta affermativa, provvederò quanto prima a restituire la mia tessera di socio: sarebbe davvero disdicevole da parte Vostra appoggiare un simile inutile maltrattamento.

Nella speranza che le voci in questione si rivelino infondate, Le porgo i miei più cordiali saluti

Giacomo Rizzo

La risposta della responsabile dell’Ufficio Stampa di Coop è arrivata quantomai veloce e pronta ed ecco cosa mi sono trovato in mailbox solo pochi minuti dopo (talmente pochi da far venire il sospetto che la mail fosse già “pronta”):

Gentile signor Giacomo, legittima la sua posizione ma altrettanto legittimo il comportamento di Coop (che poi lei può decidere evidentemente di apprezzare o meno). Con l’iniziativa lanciata a Roma Coop risponde alle richieste che arrivano da determinate comunità che vivono accanto a noi, mantenendo però la loro identità anche in materia di consumi alimentari.
Le carni in questione rispettano tutti gli standard della filiera Coop – anche in materia di benessere animale – per garantire un alto livello di qualità, controlli e garanzie con la sola aggiunta di una certificazione religiosa.
Per quanto riguarda la corretta procedura di macellazione ovvio che si seguano i dettami di quella particolare comunità, anche se Coop ha preteso e ottenuto che ci si adeguasse alla normativa europea modificando e rendendo meno cruenta la procedura (procedura che è comunque consentita dalla Ue).
Detto questo noi di Coop non ci tiriamo indietro di fronte alle richieste di chi ha stili alimentari di altro genere e siamo i primi a lottare contro qualsiasi forma di sfruttamento minorile, a favore di una filiera equa e rispettosa dell’ambiente. Ben più, me lo lasci dire, di altri nostri competitor. Ricordo solo a titolo di esempio l’adesione a Dolphin safe e Friend of the sea per la pesca sostenibile e la tutela dell’ecosistema marino, no test su animali per ciò che concerne i prodotti cosmetici Coop, la decisione presa di vietare l’utilizzo di pellicce naturali in tutti i prodotti venduti nei propri punti vendita. E ancora il presidio delle filiere critiche in Italia e fuori Italia, la certificazione SA8000 ottenuta fin dal ’98 (prima impresa europea ad averla ottenuta) etc etc

Ed ecco, infine, la mia replica (a cui non ho ricevuto alcuna risposta):

Gentilissima signora XXXXXX,

la ringrazio sentitamente per la celerità della Sua risposta.

Lungi da me mettere in discussione il fatto che Coop si sia distinta (anche nei confronti della sua diretta concorrenza, naturalmente) in quanto a rispetto dei temi ambientali. E’ proprio questo il motivo che mi ha spinto a divenire socio ed a supportare dove possibile l’azione di Coop in questo frangente.
Oltre alle certificazioni da lei citate, ricordo indubbiamente i molti prodotti che Coop vende (o spesso persino “marchia”) che mostrano sulla confezione il logo EcoLabel, certamente certificazione di indubbia qualità e valore.

Trovo però che in questo frangente specifico, Coop si trovi di fronte ad una scelta chiave, una sorta di spartiacque tra l’adesione ai principi dei quali si è fatta notabile promotrice negli ultimi anni ed i dettami del mero business. Comprendo la volontà di andare incontro alle richieste della comunità musulmana, ma ben sapendo che la normativa europea è ancora pesantemente carente in materia di diritti (ed aggiungerei, purtroppo, di controlli) in tema di macellazione ed allevamento, avrei preferito una maggior adesione di Coop (che poi, naturalmente, è legittimata ad ogni scelta commerciale che ritiene praticabile) ai principi che ne avevano spinto fino ad oggi l’azione in questo frangente. Se una comunità locale praticasse il cannibalismo (che concorderemo essere una pratica disdicevole), Coop si porrebbe forse in condizione di assecondarne le volontà? Troppe volte le scelte economiche hanno eroso i valori fondamentali della nostra società, soprattutto in tema di ambiente ed alimentazione.

Anche l’appello alla normativa europea, purtroppo, conta fino ad un certo punto: le galline ovaiole che vivono all’interno del regolamento europeo, con 6 esemplari nello spazio vitale di una coppia di fogli A4, spesso giungono all’auto mutilazione, schiacciate dallo stress di una vita senza dignità. Ai maiali d’allevamento intensivo viene recisa la coda per evitare che, nelle ristrettezze a cui vengono sottoposti per l’allevamento intensivo ed a causa dello svezzamento precoce, si feriscano l’un l’altro cercando di “succhiare latte” dalla coda altrui. A molti polli da carne, viene tolto il becco in quanto finirebbero con l’aggredirsi gli uni con gli altri. I bovini d’allevamento intensivo vengono imbottiti di medicinali in quanto nutriti a cereali (che sono incapaci di digerire) e per via della facilità di epidemie, dato il minuscolo spazio in cui vengono allevati. Tutto questo “nel pieno rispetto” della (a questo punto inadeguata) normativa Europea. Forse si potrebbe fare un passo in più (come d’altra parte Coop ha più volte dimostrato di saper fare)?

Giacomo Rizzo

Credo che vada dato atto a Coop di aver risposto (anche se con una mail forse preformata): numerose esperienze di altri blogger ci mostrano quanto difficile sia contattare (e argomentare) con grandi aziende o (peggio) multinazionali. Ciò detto, l’idea che Coop vada a tradire in qualche modo i valori ai quali ampiamente si è richiamata negli ultimi anni mi resta: l’offerta di carne macellata secondo i dettami dell’halal ma con lo stordimento degli animali sarebbe stata probabilmente una soluzione eticamente accettabile, ma economicamente svantaggiosa.

Il problema chiave credo sia proprio qui, e si tratta di un problema che travalica i confini di questa vicenda e va a toccare da vicino tutta la questione del “biologico”: l’ecologia, l’equilibrio della natura, i valori morali, tutto ciò è profondamente incompatibile con il capitalismo ed il liberismo più sfrenati, con la massimizzazione dei profitti. Non esiste (o almeno non la vedo io) una vera via d’uscita: ad un certo punto è necessario chiedersi se ciò che conta è il rispetto dei propri valori o sempre e soltanto il profitto…

Per concludere, non ho ancora deciso se aderirò al boicottaggio a Coop di cui si comincia a vociferare: ritengo che la catena abbia comunque realizzato passi importanti sul fronte della riduzione del proprio impatto sull’ambiente ed equipararla (o peggio sostituirla) ad altre catene meno impegnate su questo fronte sarebbe un segnale sbagliato. Esistono, è vero, altre soluzioni (che per altro molti attivisti praticano già), ma l’impatto di una sinergia tra il movimento ambientalista/ecologista ed una catena delle dimensioni di Coop rappresenta un valora aggiunto (anche solo in termini di sensibilizzazione) che sarebbe meglio non gettare alle ortiche…

E’ morto Paolo Zocchi

(ANSA) – PESCARA, 1 GIU – E’ stato trovato questa mattina il corpo dell’escursionista romano disperso sul Gran Sasso. I soccorritori del Cai dell’Aquila hanno ritrovato Paolo Zocchi, 47 enne informatico, in un canalone nevoso nei pressi di Pizzo Cefalone. da una prima ricostruzione l’uomo sarebbe scivolato sulla neve ghiacciata e sarebbe precipitato per qualche centinaia di metri.

Non ho parole, non so che dire… sono frastornato dalla notizia…

Dell’italico egoismo

Da Partito Democratico di Pietrasanta, via Flickr

Da Partito Democratico di Pietrasanta, via Flickr

E così, alle 3:32 di lunedì 6 aprile 2009, l’Italia scoprì (per l’ennesima volta) di essere un paese con aree ad alto rischio sismico.
La scoperta è costata (per quel che ne sappiamo al momento) oltre 92 morti e 50.000 sfollati. Interi paesi (Onna su tutti), non esistono più, in seguito alla scossa di 6,3 gradi della scala Richter che ha colpito l’Abruzzo, nei pressi di L’Aquila.

Ci sarebbe da far silenzio, tacere di fronte al dolore delle persone che nel giro di pochi secondi hanno perso tutto: un tetto e magari parte della famiglia. Lo chiede persino Berlusconi, e questo dovrebbe far riflettere.
Eppure, tacere sarebbe anche profondamente ingiusto, anche nei confronti di quelle persone che in Abruzzo, questa notte, hanno perso la vita: è ingiusto soprattutto dimenticare le colpe degli uomini che sono rimasti in vita, di coloro che guidano e indirizzano il nostro paese, è ingiusto chiudere gli occhi.

E’ idiota, permettetemi il termine, immaginare che in zone ad alto rischio sismico come in Italia, esistano ancora case che vengono giù come fossero costruite a secco alla prima scossa di terremoto. In Giappone non costruiscono il “ponte sullo stretto” e le loro case stanno in piedi, e subiscono decisamente più terremoti di noi. I soldi di quell’inutile ponte sarebbero forse bastati a promuovere ed incentivare adeguatamente la ristrutturazione delle case più vecchie nel rispetto delle norme antisismiche, sarebbero bastate ad incrementare il numero di controlli nei cantieri delle case in costruzione per far si che si impedisca a quell’idiota egoismo tipico italiano di costruire case con la sabbia, per risparmiare alla faccia degli altri. Sarà contento Berlusconi ora: il suo piano casa avrà certo successo, soprattutto in Abruzzo…

Trovo inoltre profondamente ingiusto constatare come da tutto il mondo (ed in particolare, naturalmente, dai nostri polici) vengano inviati toccanti messaggi di cordoglio e vicinanza con coloro che hanno perso tutto questa notte, mentre solo pochi giorni fa, di fronte al naufragio di due (o tre?) imbarcazioni di extracomunitari in fuga da fame e disperazione, ed alla conseguente morte di 300 persone, tutto il panorama politico italiano abbia fatto una desolante scena muta…

Ora si dia il via alle raccolte fondi, agli aiuti a distanza, si lasci agire la protezione civile e si lasci al tempo la possibilità di sanare quelle ferite che i mattoni non potranno chiudere. Ma si lasci anche chiaro in mente, a tutti, la responsabilità umana in questo disastro, e in bocca a tutti il disgusto per coloro che ne dovranno portare il fardello…

Ci deve sempre scappare il morto?

Non c’è niente da fare, perché in Italia si evidenzino i problemi, bisogna che ci scappi il morto ed a volte non basta nemmeno quello.
Il riferimento, naturalmente, è a quanto accaduto l’altro giorno a Rivoli (TO), al crollo del controsoffitto della scuola dove ha trovato la morte un giovane di 17 anni, Vito Scafidi. Ma il riferimento è anche ai morti degli scontri tra tifosi prima e dopo le partite di calcio, ai morti sul lavoro, ai morti degli incidenti sulla strada; anzi, agli ultimi due no, visto che nemmeno i morti bastano a far si che la situazione venga affrontata con serietà e con l’obiettivo di trovare un punto fermo, una soluzione.

Quante altre bombe ad orologeria impestano il nostro paese? Quanti si battono per ottenere la soluzione di qualche situazione critica, nell’indifferenza di coloro che invece dovrebbero ascoltarli, che poi sono spesso i politici e gli amministratori locali che loro stessi eleggono? Il pensiero va, ad esempio, a coloro che da tempo chiedono che il Liceo Casiraghi di Cinisello Balsamo venga sistemato, che vengano controllate e chiuse le crepe nelle putrelle di cemento che lo sostengono. Aspettiamo il morto anche qui? E anche quando ci scappa il morto, come disgraziatamente è successo a Torino, che cosa si fà? Qualcuno dice che è una fatalità, qualcuno pensa a coprirsi le spalle, qualcuno cade dal pero. I fatti è che nelle scuole ci sono sempre meno fondi (ulteriormente tagliati di recente, come sappiamo), che le strutture (edili, tecnologiche, sociali…) sono obsolete e fatiscenti.

Eppure non si farà nulla, volete scommettere? Forse mi sono dimenticato tutte le iniziative di legge ed i decreti urgenti presi dopo la strage della Thyssen Kroupp e non ho notato come tutto ciò abbia fatto piazza pulita del problema delle morti biance? O capita forse che da qualche anno si è preso in pugno il problema delle stragi sulle nostre strade e lo si è risolto?

La risposta, purtroppo, ce la racconta la realtà di tutti i giorni e la morte del povero Vito finirà con l’essere l’ennesimo sacrificio agli dei Potere e Denaro.

Immigrato muore nel CPT: sarà colpa sua

Barca della speranza Hassan è morto, ieri mattina, nel centro di permanenza temporanea di Torino. Per tutta la notte i suoi compagni di cella (si, cella, come nelle carceri) hanno chiamato a squarciagola chiedendo soccorsi che non sarebbero mai arrivati. In gabbia come cani, soli come cani, a morire come cani. Sia chiaro, di morire può capitare in tanti modi, alcuni anche ingiusti, ma di morire nel modo che racconta Mohammed Alhuiri, venticinquelle iracheno suo compagno di cella, dalle pagine di Repubblica, beh presuppone qualche responsabilità in più:

Per tutta la giornata di venerdì stava malissimo. Si lamentava. Non si reggeva in piedi. Aveva la febbre alta, mi ha persino chiesto di toccargli la fronte perché sentissi anch’io”. Alle 3 è stato visitato dal medico di guardia, nell’infermeria della Croce Rossa. “Ma forse pensavano fosse una cosa leggera o non gli hanno creduto – racconta Alhuiri – perché gli hanno dato una medicina, se ho capito bene un antibiotico, senza nemmeno verificare se potesse essere allergico. Hassan era tossicodipendente, prendeva il metadone, aveva problemi, stava ancora male. Eppure non hanno voluto più saperne di lui. L’hanno lasciato solo. L’hanno trattato come un animale.
[…]
Ho perso la voce a furia di urlare, a mezzanotte e quarantacinque gridavamo tutti. Dopo un po’ è arrivato un addetto della Croce Rossa. “Fino a domani mattina non c’è il medico”, ha spiegato. Poi se n’è andato. Hassan si è steso sul suo letto, era caldo, stava malissimo…”.
[…]
Ieri mattina suo fratello voleva parlargli. Sono andato per passargli la chiamata e l’ho visto aveva gli occhi sbarrati e la bava alla bocca. Non respirava più. L’hanno portato di nuovo in infermeria. Ma era troppo tardi. Alle 8 di mattina il medico di guardia ha constatato il decesso.

Nel frattempo, il Governo si appresta a varare il pacchetto sicurezza che con tutta probabilità introdurrà il reato di immigrazione clandestina, e vorrebbe portare a 18 mesi la permanenza degli immigrati nei CPT, nelle sovraffollate carceri che vedono da anni denunciate le disumane condizioni alle quali vengono sottoposti i “detenuti”.

Poi si parla di “proverbiale accoglienza” e si bruciano i campi dei rom. Si ammette che abbiamo bisogno del lavoro degli immigrati ma poi si chiede loro di tornare al loro paese per poter rientrare in Italia da regolari (sempre che si stia dentro “i flussi”). Si dice di voler integrare gli immigrati e di volerli far lavorare, ma se perdono il lavoro divengono immediatamente irregolari (e anche di questo possiamo ringraziare la Bossi-Fini). E’ tornata la tratta degli schiavi.

Ma la cosa più bella, l’ha detta queste ore il neoministro degli Interni Roberto Maroni, intervistato da Repubblica:

L’Italia non è un paese razzista. Episodi di questo tipo talvolta sono alimentati dai delitti commessi dai clandestini.

Propongo di dar fuoco a tutti i Padani, visto che Bossi ha commesso almeno una volta il reato di vilipendio alla bandiera… :/

Quante armi…

armsflow.pngRimango stupito ogni volta che trovo qualche cifra sul traffico d’armi nel mondo. Trovo che l’esistenza stessa delle armi non possa che stare ad indicare una minaccia per tutti, ma comprendo che finché esisteranno, proprio la loro (relativa) diffusione sarà necessaria per garantire un minimo di protezione proprio contro quelli che delle armi abusano.

D’altra parte, il volume che assume il traffico d’armi al giorno d’oggi è ben maggiore di qualsiasi giustificazione di questo genere. Semplicemente le armi consentono di uccidere, e per questo si comprano, per questo valgono, per questo si pagano, per questo si vendono. Punto, stop. Solo denaro, denaro e morte.
Tra l’altro, dopo una riduzione di volume attorno all’anno 2000, negli ultimi anni la vendita di armi tra paesi sta riprendendo vigore, e non credo che tutto sia da imputare ad Al-Quaeda.

Giusta la moratoria sulla pena di morte, giusti gli appelli affinchè le guerre cessino, e via dicendo. Ma se si smettesse (per davvero) di esportare armi, e si mobilitassero tutte le “forze rimanenti” nel controllo del traffico illegale, non otterremmo rapidamente molto di più? Non c’è proprio modo di essere più incisivi? Oppure semplicemente questi soldi, macchiati di sangue, sono graditi?

Sono sempre più convinto che ad uccidere, in fin dei conti, sia il denaro…