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Lettera aperta a Radio Popolare

Car Radio

nedrichards via Flickr

Cara Radio Popolare,

sono ormai diversi anni che seguo con interesse le tue trasmissioni.

Ho scelto, un paio d’anni fa e nonostante le ristrettezze economiche, di sostenerti con un abbonamento; non solo perché ritengo che sia dovere di ogni cittadino fare il possibile per sostenere la libertà e l’indipendenza dell’informazione (soprattutto in momenti bui come quelli in cui viviamo), ma anche perché ho sempre riscontrato nelle vostre trasmissioni (e informazioni pubblicitarie) una serietà ed una coerenza che difficilmente si riscontra in altre emittenti.
Tutto questo l’ho fatto più che volentieri, così come volentieri aderirò all’Operazione Primavera 2011.

Nell’ultimo periodo però una macchia è venuta a deturpare la limpida immagine che avevo di Radio Popolare: la pubblicità dell’omeopatia.
Come saprete l’omeopatia non ha a suo supporto alcuno studio scientifico che ne dimostri un’efficacia superiore a quella dell’effetto placebo, perciò pubblicizzarla attraverso i mass media rasenta l’incitamento alla truffa. Immagino che in redazione ci siano state (come per le altre pubblicità) approfondite discussioni in materia e mi piacerebbe sapere quale in particolare è stato il dato che ha fatto propendere per l’accettazione di una simile campagna pubblicitaria.

Riponendo in una vostra risposta tutta la fiducia di un fervente ascoltatore, colgo l’occasione per augurare a tutti voi un felice natale ed nuovo anno migliore di quello che volge a conclusione.

Facebook: due pesi, due misure?

Facebook Developer Garage Facebook è sulla bocca di tutti da parecchio tempo e lo è sempre di più, visto il successo che sta avendo anche nel nostro paese: a facebook va dato atto di essere riuscito ad avvicinare al concetto dei social network persone che a malapena sono in grado di padroneggiare lo strumento dell’email.
Ciò detto, negli ultimi giorni, “faccialibro” ha trovato un motivo in più per far parlare di se. Anzi due.

Da un lato, c’è la questione dei gruppi di “dubbio gusto”. Ce ne sono moltissimi, dai temi più disparati (una buona analisi sull’argomento la trovate in questo post di Alessandro Gilioli), tra cui naturalmente se ne possono trovare anche di poco gradevoli, sotto vari profili: sicuramente etici o politici, ma anche inopportuni come il gruppo “pro-Riina” che ha scatenato la polemica. La scelta di Facebook, in questo caso, è stata quella di garantire libertà d’espressione. Scelta più o meno condivisibile (al contrario poi dell’uso che di questa “libertà” viene fatto), ma dopotutto legittima.

Dall’altro lato, c’è la questione delle foto di donne che allattano, le quali sono invece state sistematicamente cancellate dalle pagine del social network, scatenando (anche in questo caso) la polemica: ma come, da un lato libertà massima, portata all’estremo limite di consentire gruppi “inopportuni” come quello citato e poi una censura tanto bigotta per le donne che allattano?

La mia (personalissima) impressione, è che in Facebook abbiano trovato il modo per far parlare di se, incrementando immensamente la propria visibilità sui media tradizionali (costretti per altro a spiegare cosa sia Facebook, la cui diffusa percezione positiva impedisce facili strumentalizzazioni da parte loro). Una forma di pubblicità che, anche se non necessariamente strettamente positiva, a me riporta alla mente una polemica che era nata in seguito alla BlogFest 2008 a Riva del Garda, anche se allora era stata espressa in modo davvero terribile

Insomma: il fatto stesso che io (e non solo io) mi trovi qui a scrivere non del primo caso (di cui si è già detto), ne del secondo (idem) ma della concomitanza dei due, è la riprova che in Facebook, volontariamente o meno, hanno trovato un’altro modo di farsi pubblicità gratuita e noi tutti dovremmo fare un’attenta riflessione (ancora una volta) sulle nuove problematiche legate al mondo del web e dell’informazione, che continuiamo a vivere basandoci su idee e principi ereditati direttamente dall’era precedente…

Dello scrivere “pagato”

M***INILeggendo tra i miei feed, ieri mattina ho scoperto che il buon Pseudotecnico ha deciso di rinunciare ad AdSense sul suo blog. La motivazione che lo ha spinto a questo gesto è ovviamente qualcosa di prettamente personale (nella fattispecie, il fatto che la pubblicità online sia piuttosto invasiva, a fronte di un guadagno piuttosto risicato), ma mi porte il destro per riflettere un po’ sulla questione “pubblicità online” nella realtà dei blog (per inciso, teniamo presente che basta un’estensione banale come AdBlock per risolvere il problema alla radice, aprendone un altro forse più grande).

Ben inteso: in sè, non c’è niente di male nell’inserire pubblicità sul proprio blog. E’ una fonte di guadagno (pur piuttosto limitata, a parte qualche caso eccezionale), è una scelta del blogger fatta su un qualcosa di “suo”: se va bene va bene, se non va bene è così. Se poi il blogger in questione è tanto bravo da far sopportare agli utenti alcuni più o meno vistosi inserimenti pubblicitari, tanto meglio per lui.

Personalmente però, ho sempre visto il blog come una “valvola di sfogo”, un posto dove poter esprimere liberamente idee e considerazioni, e sono convinto che l’eventuale inserimento di pubblicità su queste pagine cambierebbe questa percezione, così come l’ha cambiata l’inserimento delle statistiche d’accessi (maledetto conteggio delle visite).

Per intenderci, non voglio sentirmi obbligato a scrivere qualcosa, a meno che non ne abbia voglia io in primo luogo: scrivere non è il mio mestiere. Essendo contemporaneamente lettore ed editore del blog (per sua natura), l’obbligo verrebbe da me e da nessun altro (magari anche inconsciamente) ma il blog diventerebbe un impegno più di quanto non lo sia già e voglio a tutti i costi evitare questo rischio.
Mi è stato offerto alcune volte sia di scrivere per alcune testate online (cosa che forse avrei potuto anche prendere in considerazione più seriamente, nel momento in cui non mi vengono imposti impegni di una certa importanza), sia di pubblicare pubblicità su questo blog, e le considerazioni espresse in queste righe rappresentano il principale motivo dei miei rifiuti, oltre che il motivo per cui non è presente un singolo banner di AdSense.
Che poi, riprendendo le parole di Pseudotecnico: a quanti piace leggere un articolo cercando il testo tra le inserzioni pubblicitarie?

Si tratta naturalmente di una mia personale considerazione, che oltretutto esula dai concetti di editoria (chi scrive per mestiere come potrebbe non essere pagato?), libertà d’espressione (non tutti coloro che pagano pongono limiti alla propria libertà d’espressione ed è importante non fare di tutta l’erba un fascio) e soprattutto non vuole essere una condanna per nessuno (ci mancherebbe altro).

Quello della pubblicità online è un discorso molto delicato: si tratta di uno dei pochi mezzi di sostentamento che “la  Rete” ha per fornire servizi gratuiti (ed il fatto che il mercato cresca così rapidamente da indurre Microsoft a tentare di comprarsi un’azienda “quasi marcia” come Yahoo! la dice lunga), ma allo stesso tempo è un aspetto poco gradito da una certa fascia di navigatori (me compreso, per altro, sotto certi punti di vista). Un discorso che andrebbe approfondito con maggiore cognizione di causa.

Come affondare la ricerca “dall’interno”

Objetivo 10x Leica La situazione della Ricerca in Italia è a dir poco disperata: è disperata sul lato dei finanziamenti pubblici (irrisori anche rispetto alle medie europee), certamente, ma a volte ci si tira davvero la zappa sui piedi. Questa mattina, andando al lavoro con la radio sintonizzata su Popolare Network, mi trovo ad ascoltare uno spot pubblicitario dell’Università Statale che chiede di dedicar loro il 5-per-mille, che termina come segue:

Lui: Ma questa è pubblicità?
Lei: Ma no, anche questa è ricerca: ricerca di fondi!

La freddura è già di per se di dubbio gusto (anche perché se una pubblicità deve far ridere, onestamente, ricorrerei a qualche esperto del settore…), ma purtroppo manda un messaggio assolutamente controproducente: vogliamo i soldi, i vostri soldi, tutti i soldi. Soprattutto perché poco prima, a domanda “ma poi la ricerca al fanno davvero” ci si milita ad affermare che “la Statale è ai primi posti in Europa”: fatemi capire, viene stilata una classifica annuale sulla base delle prestazioni podistiche dei ricercatori o usiamo parametri più oggettivi?

Naturalmente io non sono un pubblicitario, quindi probabilmente mi sbaglierò e questa si rivelerà “la trovata pubblicitaria del secolo”, ma per quel che mi riguarda non è così che otterranno il mio 5-per-mille

Cura dei dettagli

Quando si sta tentando una mossa chiave per il proprio futuro di monopolista, quando un manipolo di “puristi” vorrebbe metterti i bastoni tra le ruote, soprattutto quando le tue mosse possono apparire per certi versi discutibili, ad esempio il fatto di tentare di comprarti qualche ente di standardizzazione internazionale, la differenza si fa nella cura dei dettagli.

E Microsoft, da questo punto di vista, non è seconda a nessuno, al punto che si sta comprando le inserzioni di AdWords per i termini “Nooxml” e “Noooxml” (il sito web punto di riferimento di molti dei “cospiratori” contro lo standard che Microsoft sta spingendo verso la standardizzazione internazionale), “odf”, “open document” e via dicendo.

microsoft-adwords.png

Che in fatto di marketing in Microsoft se ne intendessero, era chiaro ormai da parecchio tempo, e questa ulteriore mossa (subdola e sagace, devo ammettere) non fa che dimostrarlo ulteriormente.

Nel frattempo il dibattito su OpenXML va avanti, ed a breve (dal 25 al 29 febbraio) ci sarà l’incontro a Ginevra dei rappresentanti dei vari enti di standardizzazione nazionali per dar vita al secondo dibattito sul formato proposto da Microsoft e promosso da ECMA, dopo che la prima “manche” si era conclusa con una sostanziale sconfitta di Microsoft, che puntava al passaggio diretto alla prima votazione del “fast track”.

Aspettiamoci fuochi d’artificio…

Un’Italia sempre più ignorante: colpa della tv?

Mesmerize Ancora una volta, mi ritrovo a scrivere di libri, di cultura, di gente che non legge. Dopo i disarmanti dati di quindici giorni fa sulle abitudini letterarie della popolazione media italiana, pensavo di aver toccato il fondo, ma rincuorava quantomeno il fatto che i ceti “più abbienti” facessero rilevare un maggior tasso di alfabetizzazione (nell’accezione più moderna del termine). Ieri invece, mi trovo di fronte all’articolo del Correre della Sera che spudoratamente denuncia la regressione del tasso di aggiornamento professionale sia nella classe dirigente italiana sia nel mondo del lavoro in senso più ampio.

Ci troviamo di fronte ad un’Italia lanciata in un mondo dove l’evoluzione scientifica e tecnologica rasenta livelli in cui iniziato un corso d’aggiornamento è obsoleto prima di essere terminato, dove nell’università stessa, che vorrebbe essere il più alto livello formativo “su larga scala”, produce corsi la cui obsolescenza non raggiunge i tre anni della durata stessa del corso (la famosa “laurea breve”, i cui prodotti sono tutt’altro che confortanti). In questo vorticoso panorama di competenze necessarie, la classe dirigente italiana, quella che dovrebbe stare al timone del vascello e cercare di tenerlo a galla in questa tempesta economico-sociale che ci investe, ha deciso che l’aggiornamento non è importante.

Indubbiamente, facendo (ancora una volta) riferimento all’interessante pamphlet di Lucio Russo “Segmenti e bastoncini”, possiamo immaginare che questo sia in parte dovuto alla scelleratezza dei programmi scolastici degli ultimi dieci-venti anni, che vanno formando una classe dirigente la cui attenzione nei confronti della cultura rasenta l’incapacità di comprendere cosa sia la cultura stessa. Anche la scarsa attenzione che si da alla preparazione lavorativa dei giovani (che sono la generazione del cambiamento, e partono già disarmati e battuti anche sotto questo profilo), alle riforme del sistema educativo, potrebbero ricadere nell’emanazione diretta delle scelte scellerate compiute in questo ambito dalle passate generazione politiche (e non).

D’altra parte viene naturale chiedersi (soprattutto ai più strenui aggressori della libertà di espressione come il sottoscritto) se tutto questo sia imputabile solamente alla scarsa preparazione culturale scolastica, o se invece non si vadano delineando le prime conseguenze di una miope e scellerata gestione dell’informazione da parte di intrattenitori televisivi e pubblicitari: facendo leva su stimoli psicofisici per far si che l’essere umano telespettatore mantenga la sua attenzione viva e concentrata (tecnica questa messa in pratica soprattutto in televisione, il cui rapido variare delle immagini porta alla stimolazione dell’attenzione della mente), non lo portiamo forse ad una sorta di dipendenza da questo genere di stimoli?
Non diventa forse molto più piacevole, per l’individuo assuefatto a questi stimoli, mantenere viva l’attenzione sulla televisione (i cui contenuti culturali ho già avuto modo di discutere) anziché prendere anche solo in considerazione altre attività?

Lo sfruttamento degli aspetti psicofisici dell’uomo a fini pubblicitari (e propagandistici) è forse una delle cose più orribili che molti di noi possano immaginare, la manipolazione della mente umana per questi fini dovrebbe essere proibita per legge, e invece viene attuata nell’irresposabile tentativo di massimizzare profitti economici e potere. Le conseguenze del becero arricchimento però, sono tutte da scoprire, e ho paura che quelli citati in testa a questo post siano solo i primi sintomi di ciò che ci aspetta…

Spegnete la tv…

Di “feed” e contenuti

DopoNatale Quella dei feed “parziali” o “totali” è una annosa questione, affrontata diverse volte e da numerosi punti di vista.
Da lettore di feed rss, sicuramente posso dire di non apprezzare i feed parziali: costringono il lettore a dover necessariamente visitare il sito in questione per poter fruire del contenuto con non poco fastidio. Quando mi capita di trovarmi di fronte ad un comportamento simile, solitamente storco il naso, e non è la prima volta che elimino il feed dall’aggregatore (a meno che non abbia un interesse davvero notevole).

I vantaggi del feed parziale, invece, sono soprattutto un paio: da un lato massimizzano il numero di visite al sito web (che normalmente vengono invece suddivise tra “fruitori del feed” e “visitatori”, con il problema di capire effettivamente quale quota parte di questi due insiemi vadano poi a coincidere) e quindi le rivenute finanziarie, nel caso in cui il sito sia dotato di un qualche tipo di pubblicità. Dall’altro lato, i feed parziali impediscono il “furto” di contenuti, come è capitato diverse volte (anche piuttosto di recente) a questo blog. I contenuti pubblicati con queste pagine sono naturalmente rilasciati sotto licenza Creative Commons, ma la clausula di attribuzione andrebbe rispettata (ad esempio, le foto che da Flickr pubblico a corollario dei miei post, linkano sempre la pagina di colui che ha scattato quella foto).

Come al solito, la linea di confine si pone tra coloro che vogliono usufruire di un “servizio” che trovano comodo, e coloro che di questo servizio cercano di approfittare (molto “italica” come impostazione, eh?).
La mia scelta è stata già ponderata (ed è quella di rimanere con i feed completi), ma la questione deve portare ad analizzare la ben più complicata questione della fruizione dei contenuti di questo mondo (quello di internet), l’aspetto che il “web 2.0” sta cambiando con maggiore radicalità.

I contenuti sono sicuramente “il prodotto” del web: ne possiamo usufruire in vari modi (dai feed rss, dal sito…), ma sono certamente l’aspetto trainante di questo nuovo media.
La trasposizione di questo valore nel mondo reale è nella maggior parte dei casi veicolata da inserzioni pubblicitarie vendute sulle pagine che i contenuti li ospitano: Adsense di Google o quale altro prodotto venga usato, è da li che vengono i ricavi maggiori, e proprio Google, che di questo modello di business è il maggior interprete (se non pioniere), ci dimostra quanto possa diventare proficuo.
La pubblicità online può essere veicolata in modi diversi: quelli fastidiosi (popup, banner rumorosi…) che vanno ad irritare il visitatore e sono sempre più in decrescita, e quelli più sobri (le sobrie inserzioni di Adsense ne sono sicuramente uno dei migliori esempi). Negli anni dei popup però, gli utenti hanno cominciato a sviluppare una certa avversione verso la pubblicità online, e proprio questa avversione ha portato al diffondersi di strumenti quali i popup-blocker o gli anti-banner (AdBlock ad esempio), che hanno conseguenze non irrilevanti sull’economia dei blogger: tutti (o quasi) i mezzi di pubblicità online richiedono infatti il click del visitatore affinché il pubblicatore dei contenuti (il blogger, in questo caso) veda l’ombra di un quattrino. L’uso di strumenti di questo tipo rappresenta un duro attacco a questa forma di business online, che potrebbe riflettersi, con l’evolvere del mondo dei contenuti online, in un rallentamento della crescita in qualità, o comunque nella sua minore accelerazione: se guadagno dai miei post, sono incentivato ad aumentarne la qualità e la frequenza, se invece devo farlo “a gratis”, il tutto assume una dimensione ben diversa.

La percentuale di utenti che cliccano il banner pubblicitario è (e deve essere) un problema dell’inserzionista e del responsabile dei contenuti pubblicati, e non del visitatore che invece viene coccolato da questo nuovo genere di interazione pubblicitaria: sfrutti un servizio e se sei interessato trovi anche della pubblicità, altrimenti sei libero di sfruttare il servizio infischiandotene delle inserzioni pubblicitarie (decisamente diverso rispetto all’invadente messaggio promozionale nella sua accezione televisiva o radiofonica); è però necessaria anche da parte dei visitatori (di noi fruitori del media) una riflessione sulla sostenibilità che “erodiamo” con l’uso di certi strumenti, e delle conseguenze che queste nostre azioni possono avere a medio e lungo termine.

Internet non è più (solo) un gioco, e anche noi fruitori del media giochiamo un ruolo importante nella sua economia. Pensiamoci.

Mi cascano le braccia

virus Quando ieri mattina sono finito di fronte a questo articolo del Corriere della Sera, avevo pensato ad un hoax (non sarebbe certo la prima volta che un giornale ne pubblica uno). Non so se ci sia lo zampino di qualche burlone, ma per qualcuno che di sicurezza informatica qualcosa ne capisce (ma anche chi no, come il sottoscritto), appaiono lampanti una serie di strafalcioni davvero allucinanti. Mi limiterò a quelli principali, per non portare via troppo tempo ai lettori, che sicuramente avranno di meglio.

  1. Non è vero che “non assistiamo da un po’ ad un attacco di un virus informatico su vasta scala” perché è in corso (da anni poi) un altro genere di attacco informatico. Molto più semplicemente, la diffusione dei software antivirus e la disponibilità della banda larga (e quindi di aggiornamenti più pronti) ha fatto si che alle larghe epidemie si sostituiscano epidemie più limitate nella durata (e quindi nella diffusione), ma in numero maggiore.
    Inoltre l’abitudine (seppur poca) degli utenti a distinguere le mail di spam o virus da quelle originali (aiutati sotto questo profilo anche dal perfezionarsi dei sistemi antispam), aiuta ulteriormente la riduzione delle infezioni.
  2. Exploit” in sé non è “il nome della nuova minaccia“. Il bello è che la definizione riportata dalla pagina di Wikipedia (“un exploit è un termine usato in informatica per identificare un metodo che, sfruttando un bug o una vulnerabilità, porta all’acquisizione di privilegi o al denial of service di un computer“) è pure li, copiata ed incollata pari pari in testa all’articolo (terza riga), e invece tre righe dopo il significato di “exploit” cambia, diventando “nome proprio” della minaccia. Il concetto torna in gioco poche righe più tardi, con la frase “il fenomeno exploit ha già infettato oltre 70 milioni di pc nel mondo“: inutile dire che gli exploit (per definizione) non provocano un’infezione, al limite aprono la strada. E’ come dire che “l’aria sta in questi giorni infettando gli italiani, dopo che l’influenza ormai è da archiviare come tipologia di epidemie superata”.
    Alla fine dell’articolo, ovviamente, l’exploit diventa una “nuova tipologia di virus”: camaleontico questo exploit!
  3. Interessante la teoria secondo la quale gli “exploit” rappresentino una “nuova categoria” di attacchi informatici, “che non opera secondo le modalità terroristiche dei virus attivi fino a 4-5 anni fa” (e quelli che abbiamo visto girare fino a ieri, cos’erano?), i quali “distruggevano il contenuto degli hard disk o della posta elettronica o che bloccavano o cancellavano le pagine web di siti celebri” (o, aggiungerei io, più spesso si spedivano in giro per la rete, magari sottoforma di messaggi di posta elettronica composti a partire da quelli esistenti, con evidente perdita di dati sensibili). La domanda sorge spontanea: se non sfruttando degli exploit, come si introducevano quei virus “terroristici” all’interno dei client degli utenti? Con la forza del pensiero o con il teletrasporto?
  4. Molto bella e pittoresca l’immagine dell’exploit Arsenio Lupin che rimane nascosto (dove non si sa) per mesi (in attesa di?), prima di attaccare fulmineo e “rubare tutti i dati sensibili” (come se non ci pensassero già le migliaia di malware che ogni utente windows/internet explorer accumula quotidianamente andandosene in giro per il web).
  5. La drammatica descrizione, poi, dei danni che questo nuovo “tipo di virus” sarebbe in grado di arrecare, è davvero carina: nel caso in cui nel pc non ci siano dati sensibili da cui ricavare denaro (tipo numeri di carte di credito), il virus “corromperà le tradizionali ricerche effettuate sui più noti motori di ricerca , per portare il navigatore in siti già infettati o in siti copia di siti esistenti, dove l’utente ignaro consegna i dati della propria carta di credito convinto magari di fare acquisti in un sito affidabile“. Phishing questo sconosciuto? Eppure è un fenomeno che (almeno i giornalisti chiamati a scrivere di informatica) dovrebbero aver ormai assimilato…

L’impressione, alla fin della fiera (e preso atto delle continue citazioni a Grisoft, AVG, alla sua nuova “beta 8” ed alle funzionalità di Safe Search e Safe Surf che guarda caso proprio questo software incorpora), è che si tratti di uno spudorato tentativo di lancio commerciale tramite un articolo (magari nemmeno voluto) e messo in mano a qualcuno che della questione ha capito poco…

Dal Corriere, onestamente, mi aspettavo qualcosa di più…

Microsoft vuole comprare Yahoo!

Frankfurt Stock Exchange E’ periodo di notizie bomba, e sto imparando ad attendere prima di scrivere. Ieri Microsoft ha annunciato che intende dar luogo ad una scalata ostile nei confronti di (niente popodimenoche) Yahoo!, il famoso motore di ricerca. Microsoft offre 31$ per azione, il che costituisce un buon incentivo per i risparmiatori, visto che oltre al premio del 62% previsto dagli uomini di Redmond, c’è il titolo che oggi è schizzato in alto del 49%. Il totale stimato per l’affare si assesta intorno ai 44 miliardi e mezzo di dollari (circa 30 miliardi di euro): sono 3 finanziarie come quella del 2008 (per dare un peso alle cifre) ed il fatto che il gruppo finale si aggirerà intorno ai 350 miliardi di dollari di valore ci dice che Yahoo! vale circa un sesto di Microsoft, il che è davvero niente male, anche perchè sarebbe un totale superiore al valore di Google (che si assesta intorno ai 25 miliardi di dollari).

Sicuramente la notizia è di quelle che fanno parecchio rumore, ma sofferimiamoci un momento a riflettere sulla sostanza della questione (cit. Corriere.it):

In una conference call, l’ad di Microsoft, Steve Ballmer, ha detto che l’acquisizione di Yahoo! trasformerà l’attività Internet – in perdita – di Microsoft in un pilastro della compagnia.

Ora, come recentemente ho avuto modo di scrivere, Yahoo! rappresenta (secondo i dati in mano a XiTi Monitor), meno del 3% delle ricerche web. Non sarà un dato affidabile al 100% (combacia perfettamente con i dati statistici di questo blog), ma ci dà un’idea del panorama complessivo del quale stiamo parlando: negli ultimi anni, Google ha impostato una crescita vertiginosa che non si è arrestata neppure quando ha raggiunto il monopolio de facto (dato che continua a rosicchiare le misere quote dei concorrenti), mentre Yahoo! ha subito una lenta ma inesorabile discesa verso l’oblio (e anche economicamente non gode di strabiliante salute). L’obiettivo di Microsoft naturalmente non è quello di avere un nuovo motore di ricerca con il quale sostituire il (a mio avviso fallimentare) proprio, Live Search: l’obiettivo (dichiarato) è quello di prendere peso sul mercato della vendita di pubblicità online, che cresce ad un ritmo talmente vertiginoso che Microsoft potrebbe pensare di rientrare completamente dell’investimento fatto nell’arco di 4 o 5 anni, se riesce a prendersi metà del mercato (cosa piuttosto difficile, a mio modesto modo di vedere).

Sull’affare, comunque, Microsoft dorme tra due guanciali, visto che Google non ha alcuna possibilità di rispondere degnamente a questo assalto (a meno di non comprarsi Apple :P): infatti il gigante di Montain View non può fare un’offerta a Yahoo! (l’antitrust non glielo consentirebbe), ne al terzo motore di ricerca mondiale per importanza (anche perchè è Live Search di Microsoft) e gli altri concorrenti sono talmente piccoli da essere insignificanti se paragonati ai numeri di cui stiamo parlando.
D’altra parte, sul fronte pubblicità (che è quello che muove le somme più ingenti già oggi), Google è reduce dal “recente” acquisto di una delle più importanti compagnie al mondo, DoubleClick, e quindi ha solo da incassare, al momento, in attesa che Microsoft insegua.

La domanda (sollevata anche da Stefano Quintarelli) che a questo punto mi pongo è: a Microsoft conviene davvero scendere nell’arena di Google? Il mercato del software sta ormai decisamente stretto alla cricca di Bill Gates (d’altra parte con il 90% del mercato in mano, come potrebbe essere altrimenti?), e cercano quindi nuovi settori di espansione. Sicuramente quello del web è un nodo cruciale (e le cifre in ballo sono da prima categoria), sul quale però Microsoft ha molto da perdere e poco da guadagnare, anche perchè la parte del leone è già stata assegnata (a Google ovviamente).

Naturalmente c’è già qualcuno che ulula alla luna, insinuando dubbi sulle recenti prestazioni finanziarie di Google: effettivamente la crescita dell’ultimo quadrimestre è stata al di sotto delle aspettative, e il titolo non gode di strabiliante salute negli ultimi tempi (il che è probabilmente una conseguenza?). Se andiamo però a guardare i dati di bilancio pubblicati da Google stessa però, troviamo che la “crescita al di sotto delle aspettative” equivale ad un aumento di valore del 37% circa in 12 mesi: alla faccia della crisi!

Un’ultima considerazione: solo poche ore fa, una serie di blogger (tra cui Elena, Luca e Lele) sono stati invitati ad un incontro con Microsoft, a Roma, per discutere di

interoperabilità e standard aperti, nuovi trend tecnologici e di business, web 2.0 e software+services, oltre a offrire la possibilità di approfondire tematiche relative a strategie e prodotti Microsoft

Che sia un caso?

Italia.it chiude i battenti

E’ costato 45 milioni di euro, ed è durato pochi mesi, relegato nell’indifferenza del web. All’insegna dell’italico spreco, di Italia.it ci resterà in mente solo questo video del ministro Rutelli (si trova in rete anche una divertente parodia). Quei 45 milioni di euro avrebbero decisamente potuto essere investiti meglio…