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Indietro tutta!

Cristiano Corsini via Flickr

Dicendo che ho l’impressione che l’Italia non sia tra i paesi più avanzati del mondo non stupisco di certo nessuno. Eppure negli ultimi tempi ho l’impressione che chi spinge affinché l’Italia torni ai suoi “fasti medioevali” stia abbandonando un po’ del pudore che fino ad ora ha contraddistinto le sue azioni e si stia facendo sempre più temerario.
Non mi riferisco chiaramente ad un singolo individuo, ma l’idea (tipicamente italiana) che il singolo debba essere “furbo” e trarre giovamento dalla società, senza per questo ottemperare ai doveri che ne rendono possibile il sostentamento stesso, è piuttosto diffusa nel “Bel Paese” e sembra avere tra i suoi massimi esponenti alcuni personaggi di cui ultimamente la cronaca ha avuto modo di occuparsi.

Penso ad esempio ai discorsi di Marchionne e Tremonti al meeting di Comunione Liberazione a Rimini (abbondantemente finanziato, non è chiaro perché, con 234.000 euro di fondi pubblici della Regione Lombardia), in cui sono state messe in discussione conquiste storiche come la “sicurezza sul lavoro” (“un lusso che non possiamo permetterci” che Tremonti vorrebbe cancellare per rendere l’Italia competitiva nientemeno che con la Cina) o il diritto di sciopero (Marchionne). All’amministratore delegato di FIAT risulta evidentemente scomodo trasferire la produzione nei paesi del terzo mondo, come ci hanno abituato a fare le imprese italiane, preferisce lasciare la produzione in Italia a patto che gli italiani lavorino alle condizioni dei paesi non industrializzati: un tozzo di pane e calci nel culo. Il prossimo passo, verosimilmente, sarà la ripresa dello sfruttamento del lavoro minorile, poi il rilancio del lavoro duro in miniera, la cancellazione del voto alle donne…

Penso poi al rifiorire (non è una novità, naturalmente) del razzismo più gretto, frutto esclusivamente dell’ignoranza profonda in cui versa la stragrande maggioranza dei nostri concittadini: penso al pestaggio del vigile nel quartiere Corvetto di Milano, penso agli sgomberi forzati, penso alle condizioni disumane in cui teniamo incarcerati nei “centri di identificazione ed espulsione” persone che hanno commesso spesso e volentieri il solo crimine di essere nati in altre zone del mondo, penso al fatto che siamo tra gli ultimi paesi a non avere tutt’ora recepito la normativa europea che sancisce pene severe per i reati legati all’omofobia (se per questo, non rispettiamo neppure il trattato di Ginevra che prevede pene contro la tortura…)

Penso all’informazione in mano ad una ristretta schiera di foschi personaggi, al punto che per poter parlare alla gente, il principale partito d’opposizione sta pensando di organizzare una campagna “porta a porta”!
Penso ad un governo che pensa ai propri interessi e non a quelli dei cittadini che li hanno eletti (al punto che mentre la Mondadori si esenta dal pagare una sontuosa multa, l’Italia è il fanalino di coda della “ripresa” economica europea, praticamente immobile nel bel mezzo della crisi).

Magra consolazione pensare che i francesi, al momento, hanno altro a cui pensare: nel tentativo (vano, a giudicare dai sondaggi) di recuperare voti, il presidente Sarkozy ha lanciato una campagna di espulsione dei Rom rumeni insediati sul territorio francese, con metodi che richiamano fin troppo da vicino quelli applicati dai nazisti durante le retate della seconda guerra mondiale. E se Sarkozy si è beccato un monito dal Vaticano, fa impressione pensare che anche in Francia il dibattito non verte più sulla legittimità di quanto si sta facendo (i rumeni sono cittadini europei, e come tali devono poter girare indisturbati per tutto il territorio dell’Unione, le regole non possono valere solo quando ci fa comodo), ma sul fatto ce Sarkozy lo stia facendo o meno con il bieco intento di raccimolare voti facendo leva sull’ingiustificata ed indotta paura della gente verso tutto ciò che è “diversi” (come da anni fa la Lega in Italia, aggiungo) oppure se effettivamente si tratti di un provvedimento preso con convinzione.

Ed infine, per gravità, tutto questo nel quasi totale silenzio della così detta “società civile”, che a questo punto non direi più “addormentata”, ma in “coma irreversibile”…

Nucleare: i perché di un no

Centrale Nucleare

mbeo via Flickr

Quando si parla di nucleare la posizione di chi è apertamente contrario alla costruzione di nuove centrali nucleari in Italia viene automaticamente associata con la paura che queste centrali possano portare pericolo per la popolazione, con la mente che rimanda le immagini di Cernobyl, alla questione del referendum che fermò il nucleare in Italia tanti anni fa; la naturale risposta a questa posizione (e qui solitamente si chiude la discussione, perché chi risponde si chiude poi a riccio e non ascolta più) è che le centrali nucleari moderne sono molto più sicure, e quindi si è automaticamente etichettati come “comunisti” e (paradossalmente) “conservatori”, o ancora più paradossalmente “gente che vive sulle paure della popolazione ignorante”.

Cerco allora spazio per spiegare la mia visione del nucleare in Italia: i perché di un “no” (fermo) che non è motivato da paure catastrofistiche ma da valutazioni più complesse e ragionate.

  1. Un problema non risolto: la questione delle scorie.
    Innanzi tutto, c’è la questione (mai risolta) delle scorie, dei prodotti della reazione nucleare che anche le centrali più moderne non possono smaltire. Tutti i paesi che hanno centrali nucleari sono ricorsi allo stoccaggio di queste scorie in luoghi dedicati (sottoterra o in superficie), ma considerando che la radiotossicità di parte delle scorie si esaurisce tra i 300 ed il milione di anni, appare chiaro come non si tratti di una reale soluzione al problema, bensì di un rimandare le conseguenze di un problema a fronte della soluzione di un’immediata necessità (l’energia): si tratta di un comportamento tipico dell’uomo moderno (fregarsene dell’ambiente a fronte di un ritorno immediato) che ha già portato a enormi conseguenze (il cambiamento climatico ma non solo) ed è decisamente ora che si prenda coscienza del nostro ruolo di distruttori del pianeta che abitiamo…
  2. Un problema rimandato: l’uranio come carburante.
    Una delle principali motivazioni che paiono spingere verso il nucleare è la dipendenza dal petrolio (o dagli altri stati confinanti, ma la ragione di questa dipendenza sta proprio nell’anti-economicità di costruire nuove centrali a petrolio in Italia), il cui costo va aumentando sempre più rapidamente e la cui durata si va via via riducendo (al punto che già oggi andiamo ad estrarre il petrolio in posizioni che fino a poco tempo fa erano considerate anti-economiche, vedere alla voce “Piattaforma BP nel Golfo del Messico“).
    Purtroppo il passaggio al nucleare non risolve il problema: la richiesta di Uranio è enormemente aumentata nell’ultimo decennio (proprio a causa dell’aumento massiccio della produzione di energia da reazioni nucleari), al punto da eccedere l’offerta. Il prezzo non poteva quindi che andare alle stelle, passando dai 7$ a libbra del 2001 agli oltre 135$ a libbra del 2007. Oggi il costo si aggira intorno ai 115$ per libbra, il che incide al 40% sul costo di produzione dell’energia, vale a dire 0,71c$ per kWh prodotto. Il problema del collegamento tra il costo dell’energia e le fluttuazioni del costo delle materie prime non viene quindi risolto, ma solo rimandato.
  3. La questione dei tempi.
    I problemi sopra elencati sono ulteriormente aggravati dalle tempistiche che l’adozione del nucleare comporta: secondo la “roadmap” ufficiale, la prima centrale nucleare italiana sarebbe inserita in rete nel 2020. Durante questi 10 anni nulla verrà verosimilmente fatto (per via dell’ingente investimento in corso che non giustificherebbe interventi di altra natura) sul fronte della riduzione della dipendenza dai paesi esteri (oltre il 70% del fabbisogno italiano, ad oggi), della dipendenza dal petrolio (il cui costo continuerà invece a salire esponenzialmente) e nel 2020 ci troveremo con un costo ancora maggiore dell’Uranio, con la maggior parte degli Stati Europei in piena fase di dismissione (diversi Stati, tra cui la Germania, hanno deciso di dismettere il nucleare al termine del ciclo di vita delle centrali attualmente esistenti) e verosimilmente in una realtà energetica profondamente diversa da quella che oggi ci spinge(rebbe) verso l’adozione del nucleare.
  4. Una falsa risposta: il nucleare costa di più.
    Abbiamo già abbondantemente detto dell’aumento del costo dell’Uranio e dei tempi di costruzione delle centrali, ma sul fronte economico c’è un’altra questione importante, ed è quella del costo complessivo di una centrale nucleare. Considerando che la fase di “dismissione” di una centrale può durare fino a 110 anni (come nel caso di quelle in via di dismissione in Inghilterra), vale a dire quasi 3 volte la vita utile di una centrale (30-40 anni con interventi costanti di manutenzione), e considerando che il costo di costruzione della centrale (ad esempio una da 1600MW) si aggira tra i 4 ed i 4,5 miliardi di euro. Fare i conti numerici non è banale (per via delle molte variabili, tra cui la necessità di costruire una filiera di distribuzione, il costo dell’Uranio, il costo di costruzione dell’impianto che è molto variabile a seconda della dimensione dello stesso), ma uno studio del MIT ha evidenziato, nel 2009, che il costo a kWh dell’energia nucleare è superiore a quello dell’energia prodotto da olio combustibile o gas, ed è per di più statisticamente in ascesa.
  5. Investire su una vera soluzione: le energie rinnovabili
    E’ forse il punto più semplice e banale: se non esistessero alternative, infatti, tutti i discorsi fatti qui sopra andrebbero rivisti. Sicuramente il costo maggiorato dell’energia che acquistiamo dall’estero impone degli investimenti per portare la produzione in Italia (tutto sta poi nella scelta della tipologia di investimento che vogliamo fare), ma proprio per via della geografia del nostro paese, sono numerosissime le fonti rinnovabili che possiamo utilizzare per produrre energia senza devastare economia ed ambiente: il sole, vento, fiumi e mari non ci mancano di certo. A parità di investimenti, le energie rinnovabili sarebbero meno costose, di più rapida attuazione, meno dipendenti dalle fluttuazioni delle materie prime, maggiormente diffuse sul territorio (con ricadute ovvie sui processi di distribuzione).

Se non sapessimo già la risposta, verrebbe quasi da chiedersi su quale malato principio si stia scegliendo, in Italia, di imporre con la forza l’adozione del nucleare…

La crisi Greca ci restituisce un’Europa monca

Parlamento Europeo

SordaCadencia via Flickr

Ora che sul fronte degli aiuti alla Grecia comincia ad intravvedersi quella che pare essere la strategia definitiva degli Stati Membri, è forse giunto il momento di fare il punto su come questa difficile fase sia stata gestita e sul cosa avrebbe consentito di affrontarla in modo più efficace. Purtroppo il riquadro che ne emerge è tutto fu0rché lusinghiero, mettendo in risalto alcune gravi lacune che sono state (volontariamente) create nel Sistema Europa e che dovranno vedere un impegno ed uno sforzo notevole da parte degli Stati Membri affinché siano colmate.

  • In primis, c’è sicuramente la questione del ritorno politico: negli ultimi anni l’Unione Europea è stata culturalmente accantonata in molti Stati Membri (tra cui naturalmente anche l’Italia) a giovamento della politica nazionale; gli esponenti principali ed i leader dei vari partiti nazionali si dedicano essenzialmente alla politica locale, mentre al Parlamento Europeo vengono di solito inviati “giovani a farsi le ossa” o “confinati”. L’Europa perde così d’importanza nel comune sentire dei cittadini europei e diviene difficile spiegare ed ottenere consenso su temi comunitari, come a fagiolo gli aiuti economici alla Grecia, ma lo si era visto non molto tempo addietro con i numerosi “no” referendari alla Costituzione Europea (guarda un po’, proprio uno dei paesi che oggi maggiormente si gioverebbe di una presenza Europea più forte è quell’Irlanda che fu tra le prime a rinnegare l’adesione alla Costituzione Europea).
    Proprio in questi ultimissimi anni, possiamo trovare lampanti esempi di come la politica nazionale abbia cercato di svuotare di potere la politica europea, manovra che oggi si è rivelata drammaticamente errata: la conferma di Barroso, l’elezione della Ashton a Ministro degli Esteri europeo, l’affondamento di alcune parti del Trattato di Lisbona; gli Stati Membri hanno cercato un’Unione che non li disturbasse troppo, e ora che invece servirebbe un potere forte, se ne sente la drammatica mancanza.
    Nel caso Grecia, questo si è visto in modo piuttosto marcato da parte della Germania, dove il cancelliere Angela Merkel ha cercato prima di tutto di massimizzare il consenso elettorale (si è votato in questi giorni in alcuni Lander), con l’unico risultato (le elezioni le ha perse) di agire con meno tempestività, efficacia e saggezza di quanto non fosse necessario (e richiesto ad uno stato forte ed importante per l’Europa come quello che la Merkel guida), portando così ad un ulteriore aggravio della crisi, inizialmente tutto fuorché ingestibile. Solo l’intervento del presidente degli Stati Uniti Obama a favore di un comportamento più responsabile ed unitario da parte dell’Europa ha un po’ rimesso il treno sui binari, facendoci giungere alla creazione del mastodontico fondo di garanzia che ieri ha fatto la gioia degli speculatori in borsa.
    Affinché anche le questioni comunitarie tornino ad avere un ritorno politico, è necessario che in Europa si torni a perseguire la “cultura dell’unità“, che sin dalle scuole primarie venga mostrato quanti e quali benefici hanno portato i vari stadi della costituzione dell’Europa Unita quale oggi la conosciamo.
  • Secondariamente ma legata sicuramente alla questione trattata precedentemente, c’è la totale mancanza di strumenti a disposizione del “Governo Europeo” (che, per l’appunto, non esiste) per agire nell’arginare gli effetti della crisi, aiutare la Grecia ed evitare “il contagio”: il fondo di garanzia viene non per nulla istituito dalla BCE, la quale non può che “raccomandare” agli Stati Membri un maggior controllo sui conti pubblici, suggerendo norme di austerità che consentano di superare “indenni” (pagheranno i cittadini, come sempre, visto che si prevede già un ulteriore aumento della disoccupazione) questo periodo difficile. Non ci sono strumenti efficaci per andare a risolvere alla radice le cause della crisi: non si può stimolare la crescita, non si può intervenire a livello comunitario sulle politiche economiche ed industriali e via discorrendo.
    Il tanto denigrato Romano Prodi sta da anni spingendo per la formazione di istituzioni europee che abbiano il potere di incidere sulle politiche degli Stati Membri, ma queste istanze sono sempre state rifiutate in quanto considerate “scomode” ingerenze. Oggi vediamo per la prima volta gli effetti dell’assenza di questi strumenti. Purtroppo affinché si torni sui propri passi e si imbocchi una via più saggia, bisognerà che i politici alla guida dei vari Stati membri si facciano una profonda analisi di coscienza e rinuncino al loro ruolo di prime donne in favore di una maggior presenza dell’Europa unita all’interno della politica nazionale.

Purtroppo se il panorama politico assomiglia anche solo lontanamente a quello italiano, rischiamo che tutto ciò venga rimandato alle calende greche…

Un vaccino per l’idiozia

Siringa

Nicola Bavaro via Flickr

I numeri che vengono pubblicati in questi giorni sulla questione del flop del vaccino per l’Influenza A parlerebbero da soli, se solo gli italiani leggessero usando la testa.

Nonostante gli allarmismi dei mass media (e dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, sulla cui avventatezza nel proclamare il massimo stato di rischio si è già abbondantemente detto su queste pagine), il virus in Italia ha colpito poco e con virulenza e ferocia drasticamente ridimensionate rispetto a quanto si era paventato. Naturalmente questo minor contagio ha portato ad un minor ricorso al vaccino: non appena i medici si sono resi conto della reale consistenza dell’allerta, si è cominciato a comprendere quanto il ricorso al vaccino potesse essere circoscritto alle sole persone a rischio (anziani e bambini piccoli) come del resto accade ogni anno con l’abituale pandemia influenzale (e quindi con cifre e stime note e sostanzialmente invariate da diversi anni).

Lo Stato italiano (nella fattispecie, credo, il Ministero per la Salute) aveva inoltre avuto accesso, grazie agli accordi internazionali, ai primi dati epidemiologici non solo di stati come il Messico o gli Stati Uniti (colpiti nella prima fase e dotati di una sanità per varie ragioni strutturalmente diversa dalla nostra), ma anche di paesi come la Spagna o l’Inghilterra che hanno riscontrato focolai di influenza A ben prima di noi: un paese ben governato avrebbe stimato il numero di dosi di vaccino necessarie sulla base di queste vitali informazioni.

Invece l’Italia ha acquistato 24 milioni di dosi di vaccino. Vorrei soffermarmi un secondo a farvi ragionare su questa cifra, perché ogni tanto i numeri diventano improvvisamente “impersonali” (come accade con le vittime civili delle guerre, per intenderci): la popolazione italiana, all’ultimo censimento del 31/07/2009, ammonta a 60.231.214 abitanti. Acquistare ventiquattro milioni di dosi di vaccino significa prevedere di vaccinare (attenzione, “vaccinare” non “curare”) oltre il 40% della popolazione complessiva italiana! E tutto questo entro 12 mesi (visto che questa è la durata del vaccino). Considerate inoltre che anche supponendo di impegnare i medici 24 ore su 24, per 365 giorni, avremmo dovuto vaccinare oltre 65700 persone al giorno, cifre folli che solamente chi conosce la sanità italiana è in grado di comprendere appieno, probabilmente.

Viene quindi naturale chiedersi non solo “perché così tante dosi rispetto alla popolazione”, ma anche “perché tutte insieme”, sapendo che la durata dell’efficacia del prodotto acquistato è di 12 mesi? Per caso Novartis aveva intenzione di fermare la produzione del vaccino, una volta cominciate le campagne di vaccinazione, impedendoci così di acquistarne una seconda partita sulla base dei dati di accesso al vaccino che sarebbero emerse durante la prima fase della campagna?

E già qui ci sarebbe da chiudere il browser disgustati. Ma aspettate ancora un attimo, il bello deve ancora venire: delle 24.000.000 di dosi di vaccino acquistate, solo 10.000.000 sono state effettivamente ritirate. E di queste, poco più di 850.000 sono effettivamente state utilizzate (e vorrei sottolineare come 850.000 sia circa il 3,5% del totale). Eppure, lo scontrino che Novartis andrà a presentare allo Stato Italiano (e quindi alle tasche dei contribuenti) riguarderà tutta la partita di 24.000.000 di dosi. Sette euro a dose, 168.000.000 di euro. L’intervento del Governo Italiano contro la crisi economica, quantifichiamolo…

E tutto questo, per Novartis, senza assunzione di alcuna responsabilità: scopriamo infatti sul contratto recentemente pubblicato in rete (nonostante in prima istanza mi fosse parso di capire essere coperto da segreto di stato), il Ministero non ha praticamente inserito clausule a sfavore Novartis (come invece è uso e costume nei contratti tra due parti, in cui ognuna si accolla usualmente la propria metà degli obblighi), arrivando persino a dichiarare Novartis immune da eventuali richieste di risarcimento nel caso in cui il vaccino dovesse provocare danni alle persone a cui viene iniettato (questione spinosa che vede numerose cause aperte in altri paesi europei).

Supponiamo anche che ora il Ministero riesca ad “estorcere” a Novartis il pagamento delle sole 10.000.000 di dosi effettivamente ritirate, ci troveremmo comunque a dover scucire 70.000.000 di euro dei soldi duramente guadagnati durante questo difficile anno di crisi economica. Ci sarebbe da prendere a calci nel didietro coloro che si sono resi artefici di cotanto spreco e costringerli a pagare di tasca loro quei quattrini fino all’ultimo centesimo, se non scoprissimo (o sapevamo già, a dire il vero) che la direttrice generale di Farmindustria è Enrica Giorgetti, la moglie del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Sacconi… c’è gente che per molto meno, recentemente, ha perso la poltrona, in Inghilterra…

E noi staremmo uscendo dalla crisi?

©athrine via Flickr

©athrine via Flickr

Torno sulla questione della crisi economica, per cercare di fare un po’ il punto della situazione e portare qualche considerazione frutto delle discussioni condotte negli ultimi tempi. Berlusconi ed il Governo dicono che siamo in ripresa: quanto c’è di vero in questa affermazione, cosa significa “ripresa” e cosa può aspettarsi l’Italia da questa “ripresa” sono il tema di questo post.

Prescinderemo per il momento dal fatto che non si è mai vista una crisi economica di queste proporzioni arrivare e terminare in meno di 12 mesi, e taceremo sul fatto che non sono state praticamente prese misure per contrastare i meccanismi stessi che hanno portato alla crisi (e che anzi sono nuovamente attivi visto che le banche hanno ripreso a fare utili miliardari ed a concedere bonus immensi ai propri dirigenti).

Va innanzitutto chiarito cosa vogliamo dire usando il termine “ripresa”: se con questo intendiamo un aumento del PIL (cosa che pare effettivamente trovare un primo parziale riscontro nei dati forniti da diversi enti), dovremmo considerare che l’aumento del PIL può tranquillamente essere causato dal terremoto in Abruzzo, o più semplicemente da un aumento del consumo di benzina delle auto ferme in tangenziale la mattina. Il PIL è un indicatore tipico del consumismo, un modo malato di guardare al progresso e bisognerebbe fare riferimento a criteri diversi, per definire se la crisi economica è finita o meno. In ogni caso, l’aumento del PIL pare essere in questa fase indicatore di una ripresa sul piano finanziario (le stesse banche quindi che hanno causato la crisi si stanno ora arricchendo) e non sul piano economico.

Per comprendere la situazione attuale, al posto del PIL potremmo ad esempio usare come indicatore il ricorso alla cassa integrazione: scopriremmo che nel corso del mese di ottobre, si è andata confermando un’evoluzione “stutturale” della crisi. Se da un lato è vero che le aziende fanno apparentemente meno ricorso alla cassa integrazione straordinaria (per contro aumentano l’ordinaria e la deroga), lo fanno fondamentalmente sostituendola con la “mobilità” (quella che in gergo tecnico viene anche chiamata “licenziamenti”).
La riduzione del ricorso alla cassa integrazione non è quindi in se per se un segnale di uscita dalla crisi; anzi ci porta a ritenere che la crisi viene “assorbita” nella struttura produttiva italiana, con misure che non sono più “congiunturali” (in questo momento sospendo la produzione in attesa di nuovi ordini) ma sempre maggiormente “strutturali” (licenzio perché non sarà più come prima).

A questa considerazione si lega il fatto che la crisi in Italia non è cominciata nel 2008, come invece è stato per molti altri paesi anche Europei: la crisi in Italia c’è da molti anni e la nostra economia malata aveva finora evitato di entrare tecnicamente in recessione solamente grazie al traino dei settori delle telecomunicazioni e della telefonia mobile. Questo fondamentalmente perché la nostra è un’economia malata al suo interno, con un’evasione fiscale alle stelle (e quindi una pressione fiscale piuttosto marcata), un debito pubblico colossale, una politica demagogica ed in perenne contrasto elettorale, una cronica mancanza di formazione (tutti all’università ma nessuno che poi sappia/voglia girare un bullone), una domanda interna assolutamente insufficiente.

Ed è proprio sulla domanda interna che vorrei porre un accento: uscire dalla crisi, va bene, ma producendo per chi? Cina e Germania hanno trovato nella domanda interna la via per uscire dalla crisi: con il calo degli ordini internazionali, i governi hanno anticipato opere e lavori previsti per gli anni successivi al fine di aumentare la produzione interna, sostenendola. Altri paesi, come l’Inghilterra, hanno scelto di stimolare il volano riducendo l’IVA e aumentando così la domanda interna. In Italia la riduzione dell’IVA non si poteva fare (debito pubblico) e allo stesso modo non si possono stanziare fondi per aumentare le opere pubbliche (mentre per comprare la parte marcia Alitalia si), tutto questo mentre il potere d’acquisto degli italiani è sostanzialmente azzerato da molti anni (è tra i 5 più bassi d’Europa).
Se a questo tetro quadro aggiungiamo la quasi totale assenza di ammortizzatori sociali (sono disponibili solo per coloro che avevano un posto a tempo indeterminato, che in Italia sono davvero pochi) ed una solidarietà sociale praticamente inesistente (torniamo al discorso dell’evasione fiscale, naturalmente, ma anche all’italico atteggiamento del “lo metto nel culo agli altri prima che lo facciano con me”, aka “il paese dei furbi”), capirete benissimo che le prospettive italiane di una reale, veloce e positiva uscita dell’Italia da questa crisi economica è più un gioco di parole che qualcosa di concretamente possibile.

Ciliegina sulla torta, per gli stranieri (immigrati regolari) che sono in Italia e contribuiscono attivamente a mantenere in vita quel minimo di tessuto produttivo che ancora resta, il ricorso alla mobilità significa automaticamente l’ingresso nel limbo della clandestinità, grazie ad una legge votata dal precedente Governo Berlusconi e firmata dal leader del principale partito xenofobo italiano (la Lega Nord) Umberto Bossi e dall’attuale capo della camera Gianfranco Fini (che da qualche tempo sta facendo della sobrietà istituzionale e della ragionevolezza le proprie bandiere, ma credo dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza pensando alla situazione degli immigrati in Italia).

Il futuro, infine, appare tutto fuorché roseo: le 52 settimane di cassa integrazione disponibili per le aziende termineranno mediamente a febbraio – marzo 2010. Solo in quel momento capiremo realmente quale sia l’entità di questa crisi, con la trasformazione in “licenziamenti” di migliaia e migliaia di posti di lavoro: se ad oggi (con quindi la disponibilità anche dello strumento della cassa integrazione) hanno perso il lavoro 46.000 lavoratori a tempo indeterminato (senza contare quindi i determinati ed i precari non rinnovati alla scadenza), possiamo farci una (vaga) idea di quale sarà l’impatto della fine della cassa integrazione, la prossima primavera.

Credo che sia assolutamente fondamentale che gli italiani prendano coscienza della situazione dell’economia italiana (ed a questo gioverebbe non poco un maggior “palesarsi” di una diffusa situazione di difficoltà), perché la parte “brutta” della crisi non è ancora venuta…

La crisi non esiste

da Repubblica.it

da Repubblica.it

Il PIL a -6% non l’avevo mai visto, in compenso negli ultimi mesi ho visto amici e conoscenti licenziati per problemi economici, io stesso ho cambiato lavoro a causa delle ristrettezze economiche che la “crisi” ha messo in essere. Ci sono problemi di liquidità un po’ ovunque e le banche non concedono prestiti, strangolando letteralmente l’industria. Negli altri stati europei si è investito, tagliato l’IVA, ridotto le tasse, ognuno ha inventato qualcosa per sostenere il mercato, aiutare i cittadini. Il nostro decreto anti-crisi… beh, lasciamo stare.

La cosa che mi fa più impressione non è l’incapacità di chi ci governa di gestire la critica situazione in cui ci troviamo (chi, Tremonti, l’uomo dei condoni??). No. Quello che mi lascia di stucco è che cercando su Google si trovano ancora le dichiarazioni di numerosi esponenti del governo che definiscono “immaginaria” o “inesistente” questa crisi. Si continua a dire (da ormai 8 mesi) che il peggio è passato, che “la crisi non impatterà sull’economia reale”, che la ripresa è iniziata…

Nel frattempo, dopo esserci comprati la parte marcia di Alitalia (tanto i soldi non mancano) e nonostante si paghino le spese di una classe politica che fa volare nani e ballerine a nostre spese sui voli di stato e sulle auto blu, quando anche le compagnie petrolifere alzano (per l’ennesima volta) i prezzi non si riescono a trovare le risorse per calmierare i prezzi ed aiutare coloro che non godono del Lodo Alfano e/o di una poltrona in parlamento…

Ovviamente deve trattarsi di una mia visione parziale del mondo, visto che i nostri edotti connazionali continuano a garantire fiducia incondizionata al Governo… In fin dei conti, quindi, in Italia viviamo bene, e prosperiamo.
E allora viva il Governo, viva l’alta finanza, viva l’estremo libero mercato (Friedman docet)!

Il governo “contrasta” la crisi

La crisi si sente, eccome. Il martello economico non ha ancora colpito l’incudine italiana con tutta la forza e la violenza che si teme, ma gli effetti collaterali (su tutti l’ulteriore rallentamento dell’economia del nostro paese, già ridotta al lumicino dalle sapienti mani della nostra classe politica) hanno cominciato a sortire i loro effetti negli ultimi mesi del 2008: bilanci ridotti, perdite, ritardi nei pagamenti delle fatture, sono tutte cose che nel ristretto orizzonte di un libero professionista come il sottoscritto non hanno mancato di risaltare.

Negli altri paesi europei (ed in realtà in un po’ tutto il resto del mondo) si sta correndo ai ripari: la Germania prevede di “muovere” oltre 500 miliardi di euro per fronteggiare la sopraggiungente crisi economica (soprattutto interventi a garanzia di banche e credito, di cui 480 miliardi di euro già stanziati), la Francia, l’Inghilterra hanno già stanziato circa 25 miliardi di euro a testa (con l’Inghilterra che ha ulteriormente tagliato l’IVA, passando dal 17,5% al 15%) per il rilancio dell’economia e contano di “muovere” altri 400 circa, tra aiuti al settore dell’auto, amministrazioni locali e via dicendo.
L’Italia dal canto suo, prevede di muovere 80 miliardi di euro, di cui 5 (scarsi) sono quanto prevede il “DDL Anticrisi” (di cui per altro una parte consistente è rappresentata da bonus “pannolini” e , destinato alle famiglie che rientrano nei parametri della “social card”), restando in questo modo a metà del guado, con misure demagogiche ed inefficaci, nessun sostegno a banche ed industria, che sono invece i fattori chiave per uscire “positivamente” da questa recessione.

In più, le spaccature interne alla maggioranza (nascoste solo parzialmente dalla ormai cronica crisi d’identità dell’opposizione) vedono farsi di giorno in giorni più complesso e delicato il panorama politico italiano: se sulla lealtà della Lega non ci sono mai stati dubbi (nel senso che è scontato che non ve ne sia, visto che tutto viene valutato relativamente ai tempi di approvazione di norme razziste e federalismo fiscale), ora ci si mette anche il presidente della Camera Gianfranco Fini a mettere sotto pressione sul primo ministro Berlusconi: le aspre critiche sulla scelta del governo di chiedere la fiducia relativamente al “DDL Anticrisi” sono in realtà la punta di un iceberg ben più grande, che a malapena è riuscito a nascondersi in occasione delle elezioni e della “luna di miele” con gli italiani.
Fini aveva infatti già manifestato importanti perplessità circa il progetto del “Popolo delle Libertà” lo scorso anno, poi probabilmente a fronte di qualche promessa politica, aveva fatto marcia indietro e fatto confluire AN nel progetto del partito berlusconiano. Ora le promesse (o le sue aspettative) non si sono concretizzate e il gelo torna a calare tra le due parti in causa: da una parte si annuncia “entro marzo” il congresso che dovrebbe sancire la nascita del partito, dall’altra si afferma che “una data ancora non c’è” e via dicendo, con la tensione che va aumentando e rischia prima o poi di paralizzare la già “dilettantesca” azione di Governo anche senza il (fondamentale in altre occasioni) contributo della Lega.

L’irresistibile richiamo francese

Air France 747-428 F-GITE

E così, quattro miliardi di euro più tardi, Air France ed Alitalia convolarono a nozze. E vissero tutti felici e contenti, con buona pace dei (pochi) contribuenti italiani, condannati a saldare l’amaro conto dell’operazione “Eleggere Berlusconi”, già in verità parzialmente coperto dalle operazioni “Viva la sicurezza – fuori gli ‘stracomunitari dal Paese” e dalla “Meno tasse per tutti, più tasse agli italiani”, già abbondantemente dichiarate concluse.

Soprattutto, l’operazione “Alitalia vola in Francia” vedrà amichevolmente fregati gli elettori della Lega (in parte gli abitué del carroccio, in maggior parte coloro che hanno scelto di votare il partito dal fazzoletto verde per “salvare” Malpensa dalle orde barbariche in arrivo d’oltralpe): con il voto favorevole del Consiglio d’Amministrazione della compagnia aerea Franco-Olandese, l’accordo con Alitalia Cai Alitalia è praticamente fatto. Manca solo il via libera del CdA della compagnia nostrana, che certo non rifiuterà tanta grazia: (circa) 310 milioni di euro per il 25% della fetta “buona” della compagnia (quella muffita, come sappiamo, la mangeranno gli italiani per Pasqua, 500 grammi a testa).
Interessante la reazione di Lufthansa (preferita dal partito del carroccio), che afferma di “non essere fuori dalla partita nonostante non abbiano fatto un’offerta” (aspettano forse la firma sui contratti per dichiararsi “fuori dai giochi”?).

Gioisce il sindaco di Roma Alemanno, che proprio sulla scelta dell’opzione francese aveva investito tempo e fiato (nel tentativo di dare a Fiumicino un ruolo primario nel panorama volante italico), gioiscono meno il “partito del Nord” e soprattutto la Lega di Umberto Bossi, che ha comunque ottenuto, facendolo passare opportunamente all’interno del DDL “anticrisi”. Peccato che nel frattempo il presidente dell’ENAC, Vito Reggio faccia sapere che:

Gli accordi bilaterali già in vigore prevedono dei diritti reciproci tra Alitalia e le compagnie estere, rinegoziare questi trattati è un procedimento lungo, e non dimentichiamo che noi siamo negoziatori per conto dell’Europa, che è un cielo unico

Contento Bossi, contenti i leghisti, contenti tutti. O meglio, quasi tutti. I pochi italiani ancora dotati della facoltà di computare si saranno certamente accorti che rispetto ai 1.7 miliardi di euro offerti per l’intero asset societario (debiti compresi) di Alitalia solo pochi mesi addietro, i 310 milioni offerti per il 25% della parte “buona” sembrerebbero un po’ pochini, soprattutto sapendo che AirFrance aveva previsto 3500 esuberi contro gli oltre 10.000 che invece resteranno “a terra”, e ancora maggiormente dopo aver letto un’analisi solo leggermente più approfondita di quanto non possa farne un povero cittadino come me…

IKEA – O. Bailly, J.M. Caudron, D. Lambert

Immagine di Ikea

Per i miei standard, questo libro è stato acquistato e letto piuttosto in fretta: complice il volume piuttosto ridotto (125 pagine) è stato “selezionato per la lettura” e terminato in meno di 2 mesi (di cui 10 giorni netti per la lettura).

Catalogare questo libro è forse la parte più complessa dello scrivere questa recensione: per semplificare potremmo dire che è un libro di denuncia, perché cerca di portare all’attenzione del grande pubblico alcuni comportamenti ed anomalie del “colosso IKEA” che pur non essendo nuove di per sé, sembrano non essere state recepite e raccolte dalla clientela del gigante svedese, che continua a ritenerla un’impresa “verde, trasparente ed etica”. Tutto questo senza necessariamente dover dire “male” di IKEA in sé (anzi, onestamente l’azienda di Ingvar Kamprad ne esce piuttosto bene), ma dividendo la propaganda commerciale che ogni azienda fà (e quindi anche quella in oggetto) e la verità dei fatti, che gli autori del libro (membri di una ONG belga, “Oxfam-Magasins du monde“) sono andati a controllare sul campo (ove possibile) o hanno commissionato ad altre organizzazioni presenti sui territori. E’ così che scopriamo che nonostante IKEA chieda ai suoi fornitori il rispetto di un codice etico e procedurale (IWAY), questo è troppo largamente dimenticato, soprattutto in certi frangenti, quando “gli occhi del cliente” non sono puntati loro contro; oppure che IKEA è un’azienda tutt’altro che trasparente, al punto da impedire ai suoi dipendenti di rilasciare dichiarazioni alla stampa, o al punto da non sapere (probabilmente nemmeno in IKEA) quale sia l’assetto societario del colosso scandinavo, che nonostante questo muove un giro d’affari che supera i 15 miliardi di euro (nel 2005); o ancora che il principale concorrente di IKEA, Habitat, è in realtà una sua controllata.

Questo libro propone prima di tutto una profonda riflessione sulla nostra società, che prenda in considerazione anche quegli aspetti che forse ci passano meno sotto gli occhi (condizioni di lavoro nel terzo mondo, conseguenze dei prezzi stracciati, omologazione culturale), che valuti le conseguenze, sull’ambiente e sulla società, dei nostri acquisti e dei modelli di comportamento che adottiamo (siete mai usciti a mani vuote dall’IKEA?).

Un libro indubbiamente interessante, che non vi farà passare (non temete) la voglia di andare a mangiare polpette svedesi tra mobili smontabili e ornamenti gialli e blu, ma che vi farà riflettere sul modello culturale e sociale che IKEA propone, forse facendovi consumare in modo più responsabile.

Commento su Anobii.com:

Questo veloce pamphlet propone un’analisi piuttosto ampia sia di IKEA in quanto azienda, sia (soprattutto) del modello sociale, economico e culturale che ci propone, delle conseguenze che questo modello ha sul mondo e sull’ambiente. Un libro che non attacca futilmente IKEA (che anzi, esce piuttosto bene da questa indagine), ma ne mette in risalto alcuni aspetti (a volte comprensibili, altre meno) che potremmo contribuire attivamente a cambiare.

I “grandi” 8

Si è tenuto (e concluso), settimana scorsa, il 34° forum degli “otto paesi più industrializzati” (tecnicamente sarebbe un sette più uno, la Russia), che per l’occasione si sono dati appuntamento in Giappone, ad Hokaido, non lontano da Tokio.
USA, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada, più la Russia, si trovano infatti a cadenza annuale per discutere dei grandi problemi della geopolitica e definire i futuri assetti del mondo, forti del loro impatto sul PIL mondiale (fatto eccezione per il fatto che mancano i due paesi che da soli costituiscono quasi la metà della popolazione mondiale, India e Cina), della loro potenza militare e della loro influenza internazionale (gli italiani sono pregati di non ridere). Tra di loro troviamo il paese che ha dato vita all’enorme crisi finanziaria che sta coinvolgendo anche l’Europa (gli USA con la crisi dei subprime), un paese indebitato fino al collo (l’Italia), una pseudo-democrazia (la Russia). Le condizioni ideali, insomma, per essere incisivi in un momento così delicato della Terra, al punto da potersene tranquillamente infischiare del restante 75% della popolazione mondiale (e del 50% del prodotto mondiale lordo), al punto da poter prendere decisioni senza passare dal Consiglio Superiore delle Nazioni Unite, un approccio piuttosto “colonialista”, un po’ troppo simile per i miei gusti alla “spartizione del mondo di Yalta”.

Anche quest’anno, come sempre, sono state prese importanti decisioni riguardo la fame nel mondo, l’ecologia, l’aiuto internazionale verso i paesi più poveri. Preoccupati infatti dell’innalzamento del costo degli alimentari che sta mettendo in crisi numerosi popoli, hanno deciso di non agire con forza cambiando le regole a favore dei popoli in difficoltà. Preoccupati dalle ormai evidenti conseguenze del riscaldamento climatico del nostro pianeta, hanno proposto (salvo vedersi bocciare poi la proposta dalla Cina) di tagliare le emissioni di anidride carbonica del 50% entro il 2050 (mai, praticamente), spostando ulteriormente in avanti i paletti posti dall’Unione Europea che prevedeva un taglio del 20% entro il 2020.

Non condivido neppure l’approccio adottato nell’affrontare i problemi: tentare di redimere problemi strettamente legati gli uni dagli altri (perché il prezzo degli alimentari sarà mica legato al riscaldamento globale, al prezzo del petrolio ed alle crisi economiche in atto?) affrontandoli uno ad uno, incapaci di un’azione corale e coerente, mi pare fallimentare ancor prima di cominciare.

La mia domanda allora è: di fronte a decisioni di “questa portata”, di fronte all’emergere sempre più forte della Cina, qual’é oggi la funzione del G8? Anche se si decidesse di far rientrare la Cina in un G9, o si desse veramente vita al G20 di cui da tanti anni si và parlando, quale sarebbe la sua funzione ed in cosa si distinguerebbe dall’ONU? Il prossimo anno il G8 sarà nuovamente ospitato in Italia dopo Genova (stavolta alla Maddalena, pare). Oggi come allora, ci troviamo con un Governo Berlusconi: chissà se stavolta penserà alle fioriere o a consentire il diritto di manifestare in sicurezza…