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Di mestiere faccio… il pompiere

Mi è stato chiesto di cosa mi occupo per Amazon (beh, un bel po’ di volte per la verità). Diciamo che ad un mese e qualcosa dall’entrata in servizio ho le idee un po’ più chiare su cosa il mio team faccia e colgo l’occasione per buttare giù una breve descrizione (per lo spazio che l’NDA mi concede).

Essenzialmente il team in cui lavoro si occupa di “Event Management”. E’ poco chiaro? Se vi dicessi che “ci occupiamo della risposta agli incidenti Tier-1” è più chiaro? No? Bene, allora andiamo di metafore che rende il tutto più facile 😛

Essenzialmente il mio team agisce in modo analogo a come lavorano i pompieri (al punto che in alcuni frangenti ci occupiamo proprio di “fire fighting”): il nostro compito è quello di stare all’erta (proattivamente, di solito), svolgendo compiti di “secondo piano” (non salviamo gattini sugli alberi, ma ci occupiamo di “piccola manutenzione” alla immensa infrastruttura IT della compagnia) in attesa del momento in cui, a causa di un evento improvviso, entreremo in azione. L’azione in se consiste nell’effettuare alcune valutazioni di base (confermare che non si tratta di un falso allarme, determinare l’impatto sugli utenti dell’evento in analisi, …), dopodiché si procede con l’apertura di una “conference call” in cui poi, attraverso una procedura chiamata “ingaggio”, verranno chiamati a raccolta tutta una serie di personaggi (selezionati a seconda della tipologia di evento che ci troviamo ad affrontare) con lo scopo di individuare la causa e risolvere il problema nei tempi più rapidi possibile (considerando che in caso di problemi davvero gravi, la compagnia perde ben oltre il valore di un mio anno di stipendio ogni minuto, capite bene quanto la velocità di reazione diventi un fattore chiave). Una volta ingaggiato, il ruolo del mio team è quello di guidare la conference call, supportando i partecipanti e verificando che vengano rispettate le necessarie tempistiche e procedure (nei casi più gravi, veniamo a nostra volta supportati da un “leader” che si occupa della guida della conference call al posto nostro, consentendoci maggior concentrazione sulle altre mansioni).

Fortunatamente questo genere di eventi non è troppo frequente e buona parte del team (eccezion fatta per la persona “on call”, che è interamente dedicata alla sola attività di monitoraggio della situazione) è solitamente impegnato nella risoluzione di quelli che prima definivo “compiti di secondo piano”.
Vale la pena soffermarsi un secondo sull’analisi di quale genere di “manutenzioni” ci vengano richieste: non posso naturalmente elencare in dettaglio di che genere di attività si tratta, ma posso sicuramente descriverne la difficoltà media, che è significativa. Infatti la maggior parte delle problematiche di tipo tecnico (molte delle quali sono risolte in modo automatico, attraverso strumenti appositi oppure semplicemente perché l’infrastruttura nel suo complesso è progettata in modo da non renderli dei problemi) sono gestite internamente dai vari team. Qualora non riuscissero a venire a capo del problema, questo passa solitamente in mano nostra. Ecco allora che al nostro cospetto non si presentano più gattini sugli alberi, ma gatte da pelare discretamente incazzate.

Si tratta di un lavoro piuttosto stressante psicologicamente (soprattutto i turni “on call”, massacranti) come immagino sia quello dei pompieri, ma certo non ci si può lamentare dell’interesse medio di quello che si fa, delle possibilità di carriera o di alcuna forma di monotonia…

Una settimana più tardi…

Eccoci dunque qui, “in Dublin”, ad una settimana di distanza dal mio arrivo a tirare un po’ di somme. Ho cercato di raggruppare gli argomenti per categorie, tanto se ci sono curiosità di altra natura, posso provvedere a chiarire (se a conoscenza della risposta) o a fungere da “inviato sul campo” qualora la domanda richiedesse una verifica in vivo 🙂

Il clima

E’ sicuramente la cosa che tutti indicano come più problematica quando si parla di Dublino. Beh, non si può dire che la mia esperienza (8 giorni su 365) possa definirsi significativa, ma posso dire che in questi 7 giorni ha piovuto, nevicato, fatto caldo e gelato. Mediamente il clima non è stato orripilante, solo ogni santo giorni viene giù… non letteralmente pioggia, sembra che qualcuno abbia preso un vaporizzatore e si diverta ad infastidire i dublinesi. In ogni caso quando il sole fa capolino (e capita spesso), la città diventa gradevole nonostante il sole basso (siamo comunque discretamente a nord), il grigiore degli alberi senza foglie, la strada umida ed il vento gelido che a raffiche spazza la capitale irlandese.

Il cibo

Ero stato avvertito, non posso che ammetterlo: i dublinesi amano i panini. Sarà che sono tutt’ora alloggiato in un hotel, quindi la vastità di scelte che prevede il pub qui sotto non è esattamente il massimo della raffinatezza culinaria, però spesso finisco con il mangiarmi un sandwich farcito in qualche modo stravagante.
Va però detto che cercando con un minimo di attenzione, si trovano cose piuttosto interessanti: in questi giorni sono riuscito a guadagnarmi uno spezzatino alla Guinness (non male) ed un filetto di tacchino farcito con una sorta di salsa di frutta calda (quasi una marmellata ma meno densa) e purè, decisamente interessante.

I mezzi pubblici

Una delle cose che saltano all’occhio piuttosto rapidamente, è la quantità di autobus che girano per la città. Se dovessi fare un paragone con altre capitali europee in cui ho vissuto, penso che citerei il centro di Luxembourg: dove ti giri trovi un autobus, una fermata. Quasi tutte le strade, oltre alla pista ciclabile, prevedono una corsia riservata per bus e taxi, e prendere l’autobus diventa molto rapidamente conveniente anche in termini temporali: anche all’ora di punta si raggiunge facilmente la periferia nell’arco di mezz’ora. Poi che prenderli sia un casino (perché devi avere la moneta giusta al centesimo, non accettano banconote e non danno resto se non con dei ticket che vanno poi riscossi in centro città), che non ci siano gli orari affissi (ma c’è un sistema di informazioni real-time fermata per fermata accessibile anche dal cellulare) e che costino più che a Milano (anche se non tantissimo di più), è un altro paio di maniche. Spero comunque di aver risolto la questione grazie all’entrata in possesso di una Leap Card, una carta ricaricabile che consente di prendere sia l’autobus che il tram (LUAS). Inoltre ho colto l’occasione di questi primi giorni di girovagare per usare un po’ quella che in famiglia chiamiamo la “pedicolare”, soprattutto per rendermi conto di dove stessi andando e per avere il tempo di guardarmi attorno. Va detto che da dove si trova l’hotel (che non è proprio in centro) si arriva a Temple Bar in una mezz’oretta di buona lena e girare per il centro a piedi è un piacere.

La birra

Beh, inutile negarlo: in quanto a birra gli irlandesi capiscono parecchio. La Guinness non è quella che arriva in Italia (poveri voi), e capisco dopo averla assaggiata qui come mai gli irlandesi ne vadano tanto fieri. Difficile comunque entrare in un pub e non trovarci almeno 4 o 5 spine di discreta qualità, oltre ad un corposo assortimento di bottiglie di varia origine. No, la Peroni fortunatamente non c’è.
In compenso gli indigeni tendono a sbevazzare non male: sabato sera ero in un pub qui dietro l’hotel con dei colleghi che abitano nel quartiere e c’era un simpatico ragazzo che si reggeva malapena in piedi (alle 20:00 passate da poco) e continuava a tentare di salire e scendere dalle scale dell’ingresso, rischiando sistematicamente di farsi gli scalini con i denti. Nessuno sembrava comunque particolarmente sconcertato dalla cosa, forse perché troppo intenti a cantare a squarciagola canzoni popolari natalizie al karaoke :/

Il caffé

Che dire, non siamo in Italia e quindi “ça va sans dire”. Eppure caffè decente se ne trova in giro, a patto di voler spendere del tempo alla sua ricerca. In ufficio poi, vista la nutrita comitiva di italiani, si è già da lungo tempo provveduto all’acquisto di una macchinetta del caffè a capsule (purtroppo di una marca a me non particolarmente gradita, ma questo passa il convento). E anche al bar sotto l’ufficio, chiedendo un “espresso”, si ottiene qualcosa di quantomeno bevibile.
Inoltre mi devo ricredere su Starbucks: non è la prima volta che ci vado, ma a patto di non prendere il caffè (o quantomeno non pensare di ottenere del caffè, chiedendolo), non è davvero male. Qualche giorno fa, passeggiando per il centro, mi sono letteralmente goduto (anche perché scaldava non poco) una bella tazzona di… un liquido caffeinato corretto con del caramello: notevole.

La casa

Venendo all’argomento strettamente personale, si, ho trovato casa. Domani pomeriggio dovrei entrare in possesso delle chiavi e potrei cominciare già domani sera a fare quel micro-trasloco che mi spetta dall’hotel alla dimora del prossimo anno. Si tratta di una casetta gradevole, nel quartiere di Inchicore (quello dove si trova poi la sede di Amazon, chiaramente) ma nella zona più tranquilla. Due stanze da letto matrimoniali al primo piano, soggiorno cucina bagno e giardino al piano terra. Costo accettabile, spazio più che sufficiente, ottimo parcheggio e vicino ai mezzi pubblici (tre autobus e la LUAS) ed a un po’ di negozi utili. Credo che meglio di così, in due settimane, non si poteva davvero trovare. Inoltre sono già in possesso di un conto in banca e del mio PPS number (una sorta di codice fiscale, serve per tutto, dagli affitti al pagamento delle tasse), quindi direi che sono a buon punto con “le manovre di inserimento”.

Il lavoro

Ultimo ma non ultimo, il lavoro. La scorsa è stata una settimana piuttosto intensa: ho impiegato quasi 4 giorni ad organizzare la mia postazione (tra installazioni varie di software, permessi da richiedere e lunghe liste di form da compilare, richieste da fare e via dicendo). Poi negli ultimi due giorni ho cominciato una sorta di auto-formazione (attingendo a piene mani dalla sconfinata ed eccellente documentazione interna) e oggi sono persino riuscito a cominciare a rendermi utile, per quel poco che la mia nulla conoscenza dell’ambiente mi consente. In compenso, dopo una settimana, sono decisamente convinto che la scelta sia stata di quelle azzeccate: il ruolo è decisamente interessante, i colleghi gentili, disponibili e simpatici, l’ambiente di lavoro tra i migliori che abbia finora avuto modo di conoscere. E soprattutto la scala di questo sistema è di almeno due zeri superiore a quelle che erano le mie più rosee aspettative: c’è sicuramente spazio per farmi le ossa, sotto questo profilo…

La svolta

Sabato si avvicina a grandi passi. Alle 11:40 prenderò il mio volo “sola andata” per Dublino e la mia vita cambierà ufficialmente, rivoltata come un calzino nell’arco di un mese e mezzo scarso. Inutile dire che sono tremendamente eccitato per tutto quello che questo enorme cambiamento comporterà, per le porte che si aprono, per le opportunità che il salto professionale (ed economico, non lo nascondo) consentirà di raggiungere. Posso immaginare che questi primi mesi di vita in quel dell’Irlanda saranno confusi e incasinati, ma la cosa non mi spaventa (almeno per ora :P).

Nel mese e mezzo intercorso tra la conferma dell’offerta di lavoro da parte di Amazon.com ad oggi, ho scoperto (e fatto considerazioni su) una vasta serie di aspetti del trasloco a cui non avevo mai pensato.

  1. In primis c’è la questione delle ripercussioni che le mie scelte hanno su coloro che mi stanno attorno. Mia moglie, la sua e la mia famiglia, gli amici, il lavoro, i gatti. Ognuno di loro “pagherà” una parte del prezzo della mia scelta di vita: alcuni di loro hanno avuto voce in capitolo (come mia moglie, ovviamente), altri hanno semplicemente dovuto prendere atto della cosa. Per molti, nel lungo termine, ci sarà un ritorno: vuoi perché faranno vacanze a basso costo in Irlanda (:P) vuoi perché la maggior disponibilità economica consentirà probabilmente di ovviare in modo piuttosto efficace al problema della maggior distanza fisica che ci separerà. Per altri sarà invece semplicemente una pagina girata nel libro della vita, un ricordo magari da appuntare.
  2. Altro aspetto è quello delle minuzie. Al di la del trasloco infatti, è impressionante scoprire quante piccole cose ci legano al territorio dove viviamo: bollette, abbonamenti, incarichi. Finché non ci si trova in mezzo a tutto questo, a doversi “sradicare” da dieci anni di vita in un territorio tutto sommato circoscritto, non si riesce a percepire l’impatto che il tempo ha sul nostro essere parte del territorio stesso. E’ davvero notevole.
  3. Infine c’è l’aspetto del calore umano (non in realtà completamente separato dal punto precedente): la maggior gratificazione dell’impegno profuso nelle attività che ho portato avanti in questi dieci anni sta nella quantità di persone che si sono strette attorno a me in queste ultime settimane per condividere un’altra volta qualche minuto insieme, anche solo per una pacca sulla spalla, per un saluto. A tutte queste persone (loro sanno chi sono) va il mio ringraziamento più grande, perché è senza di loro che tutto questo non sarebbe stato possibile.

Da sabato sera quindi, sarò a Dublino, cittadino italiano emigrato. Alla ricerca di una casa confortevole (quasi un rondone alla ricerca del posto ideale dove costruire il nido), di organizzare e pianificare i prossimi anni nella piovosa e meravigliosa Irlanda. E queste pagine, spero, saranno un posto dove raccontarvi tutto questo, se vorrete leggermi.

Qualche parola su Mirafiori

Logo FIATBene, eccoci al primo giorno di “riflessione” che segue il referendum della FIAT di Mirafiori. Un referendum che non si può intendere solamente come legato all’azienda in se ed alla proposta di contratto portata da Marchionne ai dipendenti ma, per il comportamento di Marchionne stesso, ha assunto una valenza e delle aspettative di interesse nazionale. Soprattutto considerando il fatto che la vittoria del SI o del NO al referendum non avrebbe in ogni caso spostato l’asse lungo il quale FIAT sta muovendosi: il costo del lavoro incide in modo poco significativo (8-9%) sul costo di produzione delle vetture e gli spostamenti di produzione ci saranno comunque, sia questo per interessi politici (verso gli USA) o economici (verso terzo e secondo mondo).

Vorrei cominciare la mia valutazione del risultato partendo proprio dal perché personalmente non ero apertamente schierato ne con il SI ne con il NO: sono convinto che la scelta di Marchionne di “uscire” dal contratto nazionale del lavoro non sia in se fondamentalmente sbagliata. I contratti nazionali sono espressione di un’epoca industriale ormai praticamente scomparsa (nel bene e nel male): difficile oggi trovare operai che lavorano nel metalmeccanico, difficile allo stesso modo trovare il “padrone” così come era inteso cinquant’anni fa, difficile oggi come allora accomunare i lavoratori dei grandi agglomerati di produzione (come Torino, Milano o Roma) con quelli dei piccoli distretti di periferia. Proprio questo per altro ha portato ad una maggior difficoltà nella tutela dei lavoratori basandosi sui soli contratti nazionali, che a questo punto andrebbero, a mio avviso, superati. Superati perché da un lato è importante adattarli ad un mondo industriale che è cambiato, dall’altro perché vanno garantite ai lavoratori tutele di cui non avevano bisogno anche solo venti anni fa e che oggi invece li rendono schiavi di precariato e sfruttamento: non si può pensare di far competere i lavoratori italiani sullo stesso piano economico di cinesi ed indiani, così come è necessario garantire alle aziende italiane (e non) la possibilità di competere ad armi pari con gli altri stati europei.
Marchionne ha però sbagliato nei modi con cui ha condotto la sua “campagna”: si è comportato da arrogante dittatore ed ha cercato a tutti i costi lo strappo con una certa parte dei sindacati, pensando evidentemente che la spaccatura avrebbe poi portato ad una maggior “malleabilità” dei dipendenti. Ha quindi negato i referendum quando venivano chiesti dai sindacati, ha chiuso la rappresentanza a tutti coloro che non erano allineati al pensiero aziendale (e ditemi se questo non ricorda un particolare arrogante dittatore), mettendo mano a conquiste non negoziabili (quali per l’appunto la democrazia e la rappresentanza sindacale) sanciti persino dalla costituzione. Ora che i SI hanno vinto talmente di misura da far sembrare il risultato un pareggio, Marchionne rischia di vedersi improvvisamente trasformato in Pirro, avendo per le mani un’azienda che dovrà dirigere “nonostante” il 46% dei suoi lavoratori. Probabilmente una contrattazione più accondiscendente avrebbe portato ad un vantaggio anche sul piano economico.

Resta infine da capire se la FIAT ed il suo accordo riusciranno a fare scuola nelle altre aziende nazionali. Ritengo che si tratti di un dubbio infondato: il contratto proposto ai lavoratori di FIAT non è molto diverso dai contratti che in lungo ed in largo per il nostro paese vengono proposti ai lavoratori, firmati ed approvati senza grandi rumori. Quello in cui il caso FIAT ha realmente qualche differenza sta proprio nel modo con cui Marchionne ha scelto di imporre una sua scelta, e da questo punto di vista, più che una vittoria, quella del manager rischia di essere una vera e propria disfatta…

Italiani, e adesso?

discussioni, inutili ormai...

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Presto o tardi (presto, presto…) la cassa integrazione per le aziende che vi hanno fatto ricorso, terminerà. La prima tranche è in scadenza in questo periodo, un’altra (grossa) fetta terminerà a settembre, un’ultima a fine anno. E visto che la crisi non accenna a ridurre il morso (anche perché, come già detto, in Italia va ad attecchire su una crisi strutturale che certo non aiuta), ci sono ahimè poche prospettive per tutti coloro che si troveranno a casa.

Naturalmente il governo italiano non sta facendo sostanzialmente nulla per combattere la crisi: da un lato Tremonti che chiede rispetto per i parametri vitali dell’economia italiana (salvo far crescere il rapporto debito/PIL a livelli che non vedevamo da anni), dall’altro Berlusconi che è certo più interessato a salvare Alitalia (regalandola ad un paio di amichetti) che non a sostenere la ripresa, o semplicemente estendere gli ammortizzatori sociali a coloro che non ne hanno (i precari su tutti), il risultato è che mentre gli altri paesi hanno affrontato la questione e cominciano a vedere la luce in fondo al tunnel, noi continuiamo ad andare avanti con il cerino che ci scotta le dita.

Nel frattempo, la forbice tra ricchi e poveri aumenta: chi ha soldi da investire (questo è il momento buono), si arricchisce ancora di più, mentre la stragrande maggioranza degli italiani fatica non più ad arrivare a fine mese, ma anche a raggiungere la terza settimana.

Considerando numeri, percentuali e cifre, vorrei chiedere a tutti quei “cassa integrati” (perchè ce ne sono, e sono tanti) che hanno votato Silvio Berlusconi o i partiti che lo sostengono (Lega Nord in primis), e che si accorgeranno di aver portato al governo il massimo esponente di un’elite che certo non punta all’interesse dei lavoratori, ma semmai a quello degli imprenditori: che mi dite adesso? Che si fa, lo si vota ancora credendo che arriveranno i marziani e porteranno l’Italia (senza extranegri, per carità!!) su un altro bellissimo pianeta tutto nostro dove vivremo e prospereremo? Mi viene in mente una strofa di una vecchia canzone: “chiuditi nel cesso, se no l’uomo nero ti mangerà”.

Peccato che a quel punto, quando se ne renderanno conto, finita la cassa integrazione, sarà tardi… chissà se ci saranno ancora le elezioni, tra l’altro…

In Italia c’è un’emergenza Giustizia

glamismac via Flickr

glamismac via Flickr

In Italia c’è un’emergenza Giustizia. Assolutamente vero, quasi lampante oserei dire. Purtroppo per il nostro Presidente del Consiglio però, l’emergenza non sono le “toghe rosse” (mi si faccia il piacere!), l’emergenza non riguarda i processi che da anni sta tentando di bloccare facendo danni a destra ed a manca (ma se è innocente, perché non farsi processare? I costi giudiziari vengono poi rimborsati, solitamente, dal condannato…).

L’emergenza giustizia in Italia è proprio il contrario di quanto Silvio Berlusconi vorrebbe far passare: il problema in Italia è l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, e questo non solo in riferimento alla persona di Silvio Berlusconi, ma anche in molti altri frangenti dove si usano due pesi e due misure (mi riferisco ad esempio alle sentenze di condanna per i fatti di Genova).

Il problema giustizia in Italia è la giustizia sociale: agli imprenditori amici del Cavaliere è stata donata la parte buona di Alitalia (che comunque riescono a far andare male -.-), mentre la crisi sta lasciando a casa 46.000 lavoratori a tempo indeterminato (ovviamente sui contratti a progetto ed a tempo determinato che non vengono rinnovati, oltre a tutti gli extracomunitari in nero lasciati a casa, non ci sono dati certi) e le famiglie faticano sempre di più a tirare la fine del mese.

Il problema giustizia in Italia sono i 1000 morti l’anno sul lavoro (la Guerra Bianca), dei quali nessuno sa nulla e che tra “prescrizione”, “errore umano” e “fatalità” non vedono quasi mai condanne degne di questo nome, soprattutto se a lasciarci le penne sono cittadini extracomunitari clandestini, che vengono “ritrovati” in qualche campo a chilometri di distanza…

Il problema giustizia in Italia sono le morti in mano alla Polizia, che cominciano con Carlo Giuliani, passano per Federico Aldrovandi, arrivando a Stefano Cucchi tramite migliaia di altri carcerati e/o fermati pestati da “componenti deviate” delle forze dell’ordine, di cui queste però non riescono a liberarsi. Anche in questo caso, le sentenze sono quasi ridicole (per Aldrovandi, ai quattro poliziotti riconosciuti colpevoli sono stati dati 3 anni e 6 mesi, per aver lanciato una bottiglia molotov contro la porta di un carcere durante gli scontri del G8 a Genova, Marina Cugnaschi si è presa 16 anni di reclusione) ed è solo grazie alla testimonianza di un clandestino che (forse) riusciremo ad avere un po’ di verità su quanto accaduto (ed insabbiato) a Stefano Cucchi.

L’emergenza Giustizia, in Italia, c’è eccome; e sarebbe ora che il Governo (e l’opposizione) pensasse(ro) a risolverla seriamente, anziché tentare di tirare fuori Berlusconi dai suoi processi…

Un modello fallimentare

cina-lavoratoriQuesta notte guardavo l’ultima puntata di Report (il tempo è quello che è) . Si tratta della puntata la cui prima parte è dedicata alle “imprese che resistono”, alla concorrenza sleale cinese nel settore dei poltronifici di Forlì. Tema toccante e sentito, naturalmente, ma che scoperchia un vaso di pandora di altri problemi: pressione fiscale troppo elevata (diretta conseguenza della pesante evasione, naturalmente), leggi sui contratti di lavoro pensate per favorire unicamente i datori di lavoro (favorendo così anche le aziende di cinesi che sfruttano e segregano i propri dipendenti, tema centrale del pezzo di Report), controlli sul lavoro inesistenti (complessivamente, a Forlì, 12 nel 2006, ben 5 nel 2007), etc etc…

Il problema più grosso che il pezzo di Report mette in risalto, però, non è quello della concorrenza sleale delle aziende di immigrati sfruttatori, ne tanto meno la crisi che in modo più o meno marcato sta colpendo il nostro (già di suo alquanto disastrato) paese, bensì il problema di un modello economico ormai fallimentare, assolutamente inadatto ai tempi globalizzati che stiamo vivendo. Positiva o meno che sia (e qui si aprirebbe non un altro capitolo, ma un libro intero, nella fattispecie “No Logo”, di Naomi Klein) la globalizzazione selvaggia non è più un’ipotesi ma una realtà concreta, oserei dire un muro di mattoni contro cui si infrangono le speranze di molti degli imprenditori nostrani.

Questa si che è una crisi, ed è una crisi generalizzata, che abbraccia l’insieme dell’industria italiana (ed europea, probabilmente), alla quale però ancora stentiamo a dare una risposta, a reagire. Molto meglio piangersi addosso, chiedere norme protezionistiche che rimandano il problema senza risolverlo. Poi però non si esita ad accoltellare il proprio vicino per qualche spicciolo (sempre con riferimento a quanto detto domenica sera a Report). Invece di puntare sulla qualità, o sull’innovazione, sull’esperienza, inventarsi qualcosa di nuovo, preferiamo scendere nell’arena del più forte a combattere la battaglia già persa della riduzione all’osso dei costi, con danni irreparabili a livello sociale (più disoccupati, meno potere d’acquisti, il circolo vizioso che ne consegue).

D’altra parte per fare un salto di qualità, per rispondere a questa crisi, servirebbero imprenditori coraggiosi e governi competenti, qualità che purtroppo paiono essere poco diffuse nell’occidente “capitalista”…

Internet sul lavoro è sempre una perdita di tempo?

Slaving for The Man™ Lavoro ormai da qualche anno a diretto contatto con le infrastrutture informatiche di aziende di dimensione e filosofie piuttosto variamente assortite. Mi sono occupato (sempre per conto dei clienti ed in base a ciò che mi veniva di volta in volta richiesto) di limitare o consentire la navigazione web dei dipendenti nei e con le considerazioni più disparate.

Qualche tempo fà, poi, mi sono trovato di fronte ad un dato statistico riportato da downloadblog (che a sua volta cita Arstechnica) che ci dice che mediamente il 25% del tempo lavorativo viene utilizzato per “navigazione personale su internet”. Ora, al di là dell’assurdità del dato in sé (considerando tutti i lavoratori che non hanno accesso ad internet, dovremmo concludere che quelli che ce l’hanno lo usino “a scopo personale” per ben oltre il 100% del proprio tempo lavorativo), voglio provare a porre una questione di fondo, magari dando uno spunto per un minimo di discussione: dove sta il confine tra “personale” e “per lavoro”?

Cerco di spiegarmi: non voglio nascondermi dietro un dito, una significativa parte del mio tempo “lavorativo” è spesa controllando e rispondendo a mail personali, leggendo feed rss tra i più disparati (compresi alcuni fumetti, video più o meno divertenti, articoli di politica), seguendo in modo più o meno assiduo (in modo inversamente proporzionale alla mole di lavoro arretrata, solitamente) alcuni tra i più usati social network. Non solo non voglio nascondermi dietro ad un dito, in realtà, ma anzi non faccio assolutamente nulla per nascondere questa mia attività: spesso e volentieri è tornata comoda in prima battuta proprio ai miei clienti, che hanno usufruito di contatti personali, conoscenze, spunti, idee per migliorare la loro produttività, o semplicemente per ottenere un servizio migliore, da o attraverso di me.

La mia è indubbiamente una posizione felice, sotto questo punto di vista: facendo il consulente, mi occupo essenzialmente di vendere “conoscenza” ed è quindi ipotizzabile un’assimilazione del tempo passato “a zonzo per internet” come parte di un investimento in “formazione professionale”; meno vero potrebbe risultare per un operaio il cui compito sia quello di avvitare lo stesso bullone 8 ore al giorno (anche se in questo caso mi chiedo dove sarebbe l’accesso ad internet ed a che aspetto del lavoro gioverebbe).

Eppure fatico ad entrare in quest’ottica: non sono convinto che nella “società dell’informazione” si possa ancora catalogare l’accesso alle notizie, alla conoscenza, alla Rete come “personale”, scindendo questo in modo netto e puntuale rispetto a quella che invece è parte dell’attività lavorativa.
Si tratterebbe a mio avviso di una concezione piuttosto miope, considerando la direzione che il mondo del lavoro và imboccando… d’altra parte, non sarebbe l’unica…

Sia ben chiaro: non voglio giustificare l’occupazione di risorse aziendali per fini personali. Ciò che intendo dire è che potrebbe risultare poco lungimirante considerare non interconnesse (soprattutto dal punto di vista dell’informazione e della conoscenza) la sfera privata e quella lavorativa…

Un presidente imprenditore

dscf1271.jpg Molti ricorderanno la campagna pubblicitaria delle elezioni del 2001, quando manifesti giganti raffiguranti il bel faccione di Silvio Berlusconi richiamavano l’attenzione sul “Presidente Operaio” e via dicendo. Alla luce dei fatti (anche non recentissimi) si conferma per l’ennesima volta la vocazione prettamente imprenditoriale dell’attuale Presidente del Consiglio, che tra una legge “ad personam” e l’altra, trova anche il tempo di dare un contentino agli imprenditori suoi simili a discapito dei lavoratori, già frustrati da anni di stagnazione.

Tra le 32 pagine della manovra finanziaria entrata in vigore oggi (ed ampiamente spiegati nell’ottima serie di articoli del Sole 24 Ore), scopriamo l’articolo 21, che legifera in materia di contratti di lavoro a tempo determinato. Cito dalla spiegazione del Sole 24 Ore:

Articolo 21. Contratti di lavoro a tempo determinato.
I contratti a termine sono consentiti anche per l’ordinaria attività del datore. Previste nuove eccezioni alla trasformazione automatica del rapporto a termine in tempo indeterminato dopo 36 mesi; viene limitato il diritto di precedenza nelle assunzioni di chi ha avuto contratti a tempo determinato. Gli effetti delle modifiche verranno verificati dopo due anni in tavoli congiunti e il Parlamento entro tre mesi deciderà se confermarle.

In sintesi quindi, piazza pulita delle garanzie sui contratti a tempo determinato. Nuovi limiti alla trasformazione automatica, allargamento dell’ambito in cui sono applicabili, niente più precedenza a chi era a tempo determinato.
C’è poi l’articolo 23, che riguarda l’apprendistato, tecnica ad oggi (ab)usata per sottopagare tutti i minori di 26 anni indipendentemente dal loro livello di specializzazione, in modo simile agli stage, una delle grandi piaghe del lavoro giovanile, che da oggi sarà esteso anche al campo dei dottorati di ricerca.

A questo punto vorrei fare una domanda a coloro che Berlusconi l’anno votato, ed in particolar modo ai giovani precari: qualche dubbio, anche piccolo piccolo, vi sta sorgendo?