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Dei rischi del Cloud Computing

chrys via Flickr

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Trovo (colpevolmente) tempo solo oggi di leggere questo articolo di Luca Annunziata che su Punto Informatico riprende le posizioni di Richard Stallman riguardo al Cloud Computing.
Vale forse la pena, prima di inoltrarci nella discussione, di spiegare brevemente ed in termini facilmente comprensibili il concetto: si parla di Cloud Computing riferendosi al diffondersi delle “Web Application”, della disponibilità di dati in remoto ed accessibili da device diverse; l’esempio più lampante è sicuramente costituito dal sistema delle Google Apps: posta elettronica, rubrica, calendario, feed reader, suite per l’ufficio e storage documentale accessibili da qualsiasi pc, telefonino, smartphone dotato di connessione ad internet, con analogo accentramento di tutte le funzionalità e configurazioni delle varie applicazioni (filtri antispam, regole di catalogazione di posta ed eventi, dettagli dei contatti, indirizzi degli appuntamenti…)

I rischi che Stallman sottolinea nell’intervento ripreso dall’articolo di Luca sono indubbiamente rischi concreti (e non tengono conto del non indifferente fattore privacy!): nell’ottica del software libero, spostare dati e computazione lato server significa perdere il controllo su codice sorgente e dati, segnando una importante vittoria per il software proprietario. Purtroppo quello che ci troviamo ad affrontare, è un problema ben più complesso di quello del semplice controllo del software che gira sul nostro computer: in un’ottica non più di “uno a uno” (io ed il mio portatile) ma di “uno a molti” (un “application provider” ed i suoi innumerevoli utenti), anche l’uso di tecnologie “libere” lato server è difficilmente verificabile e controllabile. Su questo fronte, la differenza tra software libero e software proprietario decade (a favore del software proprietario) in quanto l’utente non ha più la possibilità di verifica.

In un mondo dell’informatica che passa sempre più dall’elaborazione locale all’elaborazione online, è questo un problema che va analizzato, compreso ed affrontato, non negato o “ignorato” come Stallman propone di fare. Il guru del software libero infatti suggerisce: “fate il vostro lavoro con il vostro computer usando software libero”.
Bello, figo, ma se non ho il computer con me? Se volessi davvero non dover accendere il portatile, magari in auto, per recuperare l’indirizzo di un contatto con il quale ho appuntamento per poterlo impostare nel navigatore satellitare? Rinunciare ai progressi della tecnologia non credo sia la risposta giusta al problema.

Quando Stallman si trovò di fronte al dominio dei sistemi operativi proprietari, suggerì forse di ricorrere all’uso di carta e penna? No.
Ho l’impressione che con gli anni Stallman si stia arrugginendo ed arroccando su posizioni non difendibili, e questo fa molto, molto male al movimento dell’opensource…

Pubblicità

Dello scrivere “pagato”

M***INILeggendo tra i miei feed, ieri mattina ho scoperto che il buon Pseudotecnico ha deciso di rinunciare ad AdSense sul suo blog. La motivazione che lo ha spinto a questo gesto è ovviamente qualcosa di prettamente personale (nella fattispecie, il fatto che la pubblicità online sia piuttosto invasiva, a fronte di un guadagno piuttosto risicato), ma mi porte il destro per riflettere un po’ sulla questione “pubblicità online” nella realtà dei blog (per inciso, teniamo presente che basta un’estensione banale come AdBlock per risolvere il problema alla radice, aprendone un altro forse più grande).

Ben inteso: in sè, non c’è niente di male nell’inserire pubblicità sul proprio blog. E’ una fonte di guadagno (pur piuttosto limitata, a parte qualche caso eccezionale), è una scelta del blogger fatta su un qualcosa di “suo”: se va bene va bene, se non va bene è così. Se poi il blogger in questione è tanto bravo da far sopportare agli utenti alcuni più o meno vistosi inserimenti pubblicitari, tanto meglio per lui.

Personalmente però, ho sempre visto il blog come una “valvola di sfogo”, un posto dove poter esprimere liberamente idee e considerazioni, e sono convinto che l’eventuale inserimento di pubblicità su queste pagine cambierebbe questa percezione, così come l’ha cambiata l’inserimento delle statistiche d’accessi (maledetto conteggio delle visite).

Per intenderci, non voglio sentirmi obbligato a scrivere qualcosa, a meno che non ne abbia voglia io in primo luogo: scrivere non è il mio mestiere. Essendo contemporaneamente lettore ed editore del blog (per sua natura), l’obbligo verrebbe da me e da nessun altro (magari anche inconsciamente) ma il blog diventerebbe un impegno più di quanto non lo sia già e voglio a tutti i costi evitare questo rischio.
Mi è stato offerto alcune volte sia di scrivere per alcune testate online (cosa che forse avrei potuto anche prendere in considerazione più seriamente, nel momento in cui non mi vengono imposti impegni di una certa importanza), sia di pubblicare pubblicità su questo blog, e le considerazioni espresse in queste righe rappresentano il principale motivo dei miei rifiuti, oltre che il motivo per cui non è presente un singolo banner di AdSense.
Che poi, riprendendo le parole di Pseudotecnico: a quanti piace leggere un articolo cercando il testo tra le inserzioni pubblicitarie?

Si tratta naturalmente di una mia personale considerazione, che oltretutto esula dai concetti di editoria (chi scrive per mestiere come potrebbe non essere pagato?), libertà d’espressione (non tutti coloro che pagano pongono limiti alla propria libertà d’espressione ed è importante non fare di tutta l’erba un fascio) e soprattutto non vuole essere una condanna per nessuno (ci mancherebbe altro).

Quello della pubblicità online è un discorso molto delicato: si tratta di uno dei pochi mezzi di sostentamento che “la  Rete” ha per fornire servizi gratuiti (ed il fatto che il mercato cresca così rapidamente da indurre Microsoft a tentare di comprarsi un’azienda “quasi marcia” come Yahoo! la dice lunga), ma allo stesso tempo è un aspetto poco gradito da una certa fascia di navigatori (me compreso, per altro, sotto certi punti di vista). Un discorso che andrebbe approfondito con maggiore cognizione di causa.

Millenoveottantaquattro

folders Quanto siamo lontano da 1984 di Orwell?

Non sto facendo dietrologie, sospettando del tecnocontrollo di Google o di Echelon, ma facendo un chiarissimo riferimento alla notizia, circolata già alcuni giorni fà, che i teenagers inglesi (aventi età superiore a 14 anni) verranno sottoposti a schedatura ed i relativi dati memorizzati in un grande archivio centralizzato consultabile online (e chi ne capisce di informatica non faticherà ad immaginare quanto a lungo quei dati saranno anche solo minimamente protetti da malintenzionati): identificativo personale, dati personali, percorso formativo, tutto a disposizione di università e futuri datori di lavoro, affinché possano scegliersi il proprio precario nel grande bacino degli studenti.

Ovviamente la notizia ha sollevato numerose polemiche, soprattutto dalle organizzazioni per la difesa della privacy e dei diritti umani, dai genitori e dagli insegnanti dei ragazzi in questione, ma anche da parte dei politici dell’opposizione (che in Italia avrebbe invece apprezzato moltissimo una decisione di questo genere, visto che aveva precedentemente dato vita a quell’accrocchio che era il decreto Pisanu), anche se in Italia il risalto dato all’iniziativa è praticamente nullo.

Personalmente trovo l’idea alquanto spaventosa: consegnare nelle mani dei selezionatori tutti quei dati sui giovani, oltre a violare il diritto all’oblio per le “ragazzate” o “debolezze” di gioventù, genera una disparità di conoscenze incredibile. Per parcondicio, non si dovrebbe fornire ai ragazzi un profilo molto dettagliato dell’azienda in questione, compresi i stipendi, orari di lavoro e commenti raccolti da tutti i lavoratori, assunti e licenziati, degli ultimi 25 anni? O forse questo potrebbe risultare un po’ scomodo? Ecco, il concetto è lo stesso…
La tendenza a cui assistiamo da diverso tempo, purtroppo, non fa proprio ben sperare: quanto a lungo riusciremo ancora a difendere la nostra privacy?

La sponda conveniente

IMG_2245.JPGNegli ultimi cinque/sei anni abbiamo assistito alla nascita, alla guerra ed alla morte del sistema Digital Restriction Management.

Nato con l’esigenza di garantire ancora maggiori profitti di quelli che già facevano le grandi case discografiche, il DRM è stato il simbolo della grande guerra alla “pirateria digitale”, soprattutto quella dei più giovani che dopo essersi scaricati gli mp3 vanno ai concert e magari non comprano i cd (che sono quelli che portano maggior guadagno alle major). Ma anche contro quelli più cresciuti, che piuttosto che comprare un cd per uno singolo pezzo, preferiscono comprarselo online, e poi mettere insieme i pezzi per sentirsi il cd in auto mentre vanno al lavoro (maledetti, rubano il lavoro alle major!).

Ci è stato detto che la “pirateria”  stava distruggendo il mercato della musica: certo, e i 2 miliardi di euro/anno che fatturano le vendite di prodotti digitali, cosa sono? Il tasso di crescita del 200% annuo delle vendite? Possiamo dire che forse è la fine dei cdrom (anche perchè a 23 euro a cd, è dura pensare ad un futuro…), che forse è ora che le major si rendano conto che internet sta cambiando il mondo, e che cercare di trattenere l’acqua facendo la coppa con le mani non dura a lungo…

Eppure in questa battaglia, il “popolo di internet” (come alla stampa piace definirlo) è sempre stato solo (a parte qualche illuminato musicista), osteggiato dai politici (soldisoldisoldi), dalle major (soldisoldisoldi) e dai venditori online (soldisoldisoldi), dalla grande distribuzione (soldisoldisoldi). Poi, un giorno, qualcuno è stato fulminato sulla via di damasco (o si è fatto spiegare il meccanismo, oppure ha deciso che era il momento di fare il classico colpo di scena) e da allora, uno alla volta, tutti i grandi player si sono affrettati a saltare la barricata: grandi musicisti, vendor (iTunes), produttori (EMI e recentemente Universal), distributori (Amazon); un po’ per affari (vuoi mettere quanto vendi di più se non metti il drm?), un po’ per pubblicità, un po’ perché non sono soldi loro, ora dall’altra parte chi rimane? A difendere il DRM, chi ci pensa? Sony e Warner cominciano probabilmente ad intuire che la barca sta affondando (che spirito di osservazione!) e solo la RIAA resterà presto, da buon capitano, sul vascello che affonda… conoscendo l’integrità morale di questa gente, quanto pensate che ci metteranno a “saltare” di qua anche loro?

Lombardia: bollo auto solo online

Verona - In coda Il Consiglio Regionale della Lombardia annuncia che dal gennaio 2008 il bollo auto potrà essere pagato solo tramite internet. Obiettivo della decisione l’eliminazione di sportelli, file ed errori. Il tutto avverrà tramite l’appoggio del sistema bancario online.

Pur essendo io un fervido sostenitore dell’idea che l’informatica possa migliorare la qualità media della vita dei cittadini italiani, non sono convinto che, in questo momento, il completo distacco dalla materialità del mondo reale possa essere di giovamento.

Io non avrò naturalmente alcun problema a pagare il bollo auto via internet (anche perchè avendo un’auto immatricolata in Belgio non lo pago proprio), a patto naturalmente che sia un sistema accessibile anche da altri sistemi operativi che non quelli prodotti nella regione di Redmond, USA.
Mi chiedo però cosa potrebbe fare qualsiasi anziano, che magari non ha nemmeno il computer in casa…

Inoltre, questo potrebbe configurare un’interruzione di pubblico servizio per tutti i downtime dei provider (voluti o meno, leggi “telecom o meno”), in quanto impedisce l’accesso a servizi non accessibili altrimenti.

Mi sembra un po’ azzardato…