Torno sulla questione della crisi economica, per cercare di fare un po’ il punto della situazione e portare qualche considerazione frutto delle discussioni condotte negli ultimi tempi. Berlusconi ed il Governo dicono che siamo in ripresa: quanto c’è di vero in questa affermazione, cosa significa “ripresa” e cosa può aspettarsi l’Italia da questa “ripresa” sono il tema di questo post.
Prescinderemo per il momento dal fatto che non si è mai vista una crisi economica di queste proporzioni arrivare e terminare in meno di 12 mesi, e taceremo sul fatto che non sono state praticamente prese misure per contrastare i meccanismi stessi che hanno portato alla crisi (e che anzi sono nuovamente attivi visto che le banche hanno ripreso a fare utili miliardari ed a concedere bonus immensi ai propri dirigenti).
Va innanzitutto chiarito cosa vogliamo dire usando il termine “ripresa”: se con questo intendiamo un aumento del PIL (cosa che pare effettivamente trovare un primo parziale riscontro nei dati forniti da diversi enti), dovremmo considerare che l’aumento del PIL può tranquillamente essere causato dal terremoto in Abruzzo, o più semplicemente da un aumento del consumo di benzina delle auto ferme in tangenziale la mattina. Il PIL è un indicatore tipico del consumismo, un modo malato di guardare al progresso e bisognerebbe fare riferimento a criteri diversi, per definire se la crisi economica è finita o meno. In ogni caso, l’aumento del PIL pare essere in questa fase indicatore di una ripresa sul piano finanziario (le stesse banche quindi che hanno causato la crisi si stanno ora arricchendo) e non sul piano economico.
Per comprendere la situazione attuale, al posto del PIL potremmo ad esempio usare come indicatore il ricorso alla cassa integrazione: scopriremmo che nel corso del mese di ottobre, si è andata confermando un’evoluzione “stutturale” della crisi. Se da un lato è vero che le aziende fanno apparentemente meno ricorso alla cassa integrazione straordinaria (per contro aumentano l’ordinaria e la deroga), lo fanno fondamentalmente sostituendola con la “mobilità” (quella che in gergo tecnico viene anche chiamata “licenziamenti”).
La riduzione del ricorso alla cassa integrazione non è quindi in se per se un segnale di uscita dalla crisi; anzi ci porta a ritenere che la crisi viene “assorbita” nella struttura produttiva italiana, con misure che non sono più “congiunturali” (in questo momento sospendo la produzione in attesa di nuovi ordini) ma sempre maggiormente “strutturali” (licenzio perché non sarà più come prima).
A questa considerazione si lega il fatto che la crisi in Italia non è cominciata nel 2008, come invece è stato per molti altri paesi anche Europei: la crisi in Italia c’è da molti anni e la nostra economia malata aveva finora evitato di entrare tecnicamente in recessione solamente grazie al traino dei settori delle telecomunicazioni e della telefonia mobile. Questo fondamentalmente perché la nostra è un’economia malata al suo interno, con un’evasione fiscale alle stelle (e quindi una pressione fiscale piuttosto marcata), un debito pubblico colossale, una politica demagogica ed in perenne contrasto elettorale, una cronica mancanza di formazione (tutti all’università ma nessuno che poi sappia/voglia girare un bullone), una domanda interna assolutamente insufficiente.
Ed è proprio sulla domanda interna che vorrei porre un accento: uscire dalla crisi, va bene, ma producendo per chi? Cina e Germania hanno trovato nella domanda interna la via per uscire dalla crisi: con il calo degli ordini internazionali, i governi hanno anticipato opere e lavori previsti per gli anni successivi al fine di aumentare la produzione interna, sostenendola. Altri paesi, come l’Inghilterra, hanno scelto di stimolare il volano riducendo l’IVA e aumentando così la domanda interna. In Italia la riduzione dell’IVA non si poteva fare (debito pubblico) e allo stesso modo non si possono stanziare fondi per aumentare le opere pubbliche (mentre per comprare la parte marcia Alitalia si), tutto questo mentre il potere d’acquisto degli italiani è sostanzialmente azzerato da molti anni (è tra i 5 più bassi d’Europa).
Se a questo tetro quadro aggiungiamo la quasi totale assenza di ammortizzatori sociali (sono disponibili solo per coloro che avevano un posto a tempo indeterminato, che in Italia sono davvero pochi) ed una solidarietà sociale praticamente inesistente (torniamo al discorso dell’evasione fiscale, naturalmente, ma anche all’italico atteggiamento del “lo metto nel culo agli altri prima che lo facciano con me”, aka “il paese dei furbi”), capirete benissimo che le prospettive italiane di una reale, veloce e positiva uscita dell’Italia da questa crisi economica è più un gioco di parole che qualcosa di concretamente possibile.
Ciliegina sulla torta, per gli stranieri (immigrati regolari) che sono in Italia e contribuiscono attivamente a mantenere in vita quel minimo di tessuto produttivo che ancora resta, il ricorso alla mobilità significa automaticamente l’ingresso nel limbo della clandestinità, grazie ad una legge votata dal precedente Governo Berlusconi e firmata dal leader del principale partito xenofobo italiano (la Lega Nord) Umberto Bossi e dall’attuale capo della camera Gianfranco Fini (che da qualche tempo sta facendo della sobrietà istituzionale e della ragionevolezza le proprie bandiere, ma credo dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza pensando alla situazione degli immigrati in Italia).
Il futuro, infine, appare tutto fuorché roseo: le 52 settimane di cassa integrazione disponibili per le aziende termineranno mediamente a febbraio – marzo 2010. Solo in quel momento capiremo realmente quale sia l’entità di questa crisi, con la trasformazione in “licenziamenti” di migliaia e migliaia di posti di lavoro: se ad oggi (con quindi la disponibilità anche dello strumento della cassa integrazione) hanno perso il lavoro 46.000 lavoratori a tempo indeterminato (senza contare quindi i determinati ed i precari non rinnovati alla scadenza), possiamo farci una (vaga) idea di quale sarà l’impatto della fine della cassa integrazione, la prossima primavera.
Credo che sia assolutamente fondamentale che gli italiani prendano coscienza della situazione dell’economia italiana (ed a questo gioverebbe non poco un maggior “palesarsi” di una diffusa situazione di difficoltà), perché la parte “brutta” della crisi non è ancora venuta…