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Di mestiere faccio… il pompiere

Mi è stato chiesto di cosa mi occupo per Amazon (beh, un bel po’ di volte per la verità). Diciamo che ad un mese e qualcosa dall’entrata in servizio ho le idee un po’ più chiare su cosa il mio team faccia e colgo l’occasione per buttare giù una breve descrizione (per lo spazio che l’NDA mi concede).

Essenzialmente il team in cui lavoro si occupa di “Event Management”. E’ poco chiaro? Se vi dicessi che “ci occupiamo della risposta agli incidenti Tier-1” è più chiaro? No? Bene, allora andiamo di metafore che rende il tutto più facile 😛

Essenzialmente il mio team agisce in modo analogo a come lavorano i pompieri (al punto che in alcuni frangenti ci occupiamo proprio di “fire fighting”): il nostro compito è quello di stare all’erta (proattivamente, di solito), svolgendo compiti di “secondo piano” (non salviamo gattini sugli alberi, ma ci occupiamo di “piccola manutenzione” alla immensa infrastruttura IT della compagnia) in attesa del momento in cui, a causa di un evento improvviso, entreremo in azione. L’azione in se consiste nell’effettuare alcune valutazioni di base (confermare che non si tratta di un falso allarme, determinare l’impatto sugli utenti dell’evento in analisi, …), dopodiché si procede con l’apertura di una “conference call” in cui poi, attraverso una procedura chiamata “ingaggio”, verranno chiamati a raccolta tutta una serie di personaggi (selezionati a seconda della tipologia di evento che ci troviamo ad affrontare) con lo scopo di individuare la causa e risolvere il problema nei tempi più rapidi possibile (considerando che in caso di problemi davvero gravi, la compagnia perde ben oltre il valore di un mio anno di stipendio ogni minuto, capite bene quanto la velocità di reazione diventi un fattore chiave). Una volta ingaggiato, il ruolo del mio team è quello di guidare la conference call, supportando i partecipanti e verificando che vengano rispettate le necessarie tempistiche e procedure (nei casi più gravi, veniamo a nostra volta supportati da un “leader” che si occupa della guida della conference call al posto nostro, consentendoci maggior concentrazione sulle altre mansioni).

Fortunatamente questo genere di eventi non è troppo frequente e buona parte del team (eccezion fatta per la persona “on call”, che è interamente dedicata alla sola attività di monitoraggio della situazione) è solitamente impegnato nella risoluzione di quelli che prima definivo “compiti di secondo piano”.
Vale la pena soffermarsi un secondo sull’analisi di quale genere di “manutenzioni” ci vengano richieste: non posso naturalmente elencare in dettaglio di che genere di attività si tratta, ma posso sicuramente descriverne la difficoltà media, che è significativa. Infatti la maggior parte delle problematiche di tipo tecnico (molte delle quali sono risolte in modo automatico, attraverso strumenti appositi oppure semplicemente perché l’infrastruttura nel suo complesso è progettata in modo da non renderli dei problemi) sono gestite internamente dai vari team. Qualora non riuscissero a venire a capo del problema, questo passa solitamente in mano nostra. Ecco allora che al nostro cospetto non si presentano più gattini sugli alberi, ma gatte da pelare discretamente incazzate.

Si tratta di un lavoro piuttosto stressante psicologicamente (soprattutto i turni “on call”, massacranti) come immagino sia quello dei pompieri, ma certo non ci si può lamentare dell’interesse medio di quello che si fa, delle possibilità di carriera o di alcuna forma di monotonia…

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Del coraggio dell’andare via

Ieri un amico mi definiva “coraggioso” per la scelta di lasciare il lavoro in Italia e buttarmi a capofitto nella nuova avventura Irlandese. Come rispondevo a lui, è stato tutto così rapido ed inatteso che non ho realmente preso coscienza di cosa stavo facendo se non negli ultimissimi giorni prima della partenza stessa, quando in ogni caso non avrei comunque più potuto tornare indietro.

Ciò detto però, mi offre lo spunto per condividere con voi un paio di riflessioni che ho maturato in questo periodo.

Venire a vivere in Irlanda nel 2012, nel contesto in cui mi sono mosso io, è tutto sommato una questione abbastanza semplice. L’Irlanda fa parte dell’Unione Europea (Schengen in questo caso fa poco testo), adotta l’euro, ha abbandonato l’uso delle “pertiche al semimese” (cit) per le unità metrico-decimali già parecchi anni fa, io conosco l’inglese ad un livello sufficiente a farmi capire efficacemente al lavoro ed a poter comunicare con gli Irlandesi (sebbene con qualche difficoltà in certi particolari contesti :P). Il diffondersi poi delle linee aeree “low cost” inoltre, rende Dublino una città situata ad “un paio d’ore” di distanza da ciò che lascio, Milano, ed a prezzi assolutamente accettabili; se mi fossi trasferito a Bologna, o Firenze, non sarebbe sostanzialmente cambiato granché da questo punto di vista. Infine, ed è un punto da non sottovalutare, non ho figli a carico e questo rende chiaramente tutto più facile. Ci vuole dunque ben poco coraggio ad intraprendere questa strada, avendo alle spalle queste prerogative.

Ammiro invece i miei genitori, che una scelta analoga la presero nel lontano 1996, trasferendosi a Lussemburgo in un contesto completamente diverso. Le compagnie aeree non erano così economiche, il francese una lingua da imparare, l’Unione Europea molto meno coesa ed armonizzata di quanto non lo sia oggi (e no, l’Euro non c’era). L’hanno fatto con due figli a carico, allontanandosi di oltre 9 ore di strada dalla città dove avevano fino a quel punto vissuto e dove lasciavano i parenti.

Ammiro inoltre la mia mogliettina, che lascia il lavoro, gli amici e una lingua nota per seguirmi in un’avventura che tutto sommato (benché in modo condiviso) ho scelto io.

Cycle to work scheme: tanto semplice quanto geniale

Ho scoperto (da qualche tempo per la verità) che in Irlanda esiste una cosa chiamata “Cycle to work scheme”. Ve ne descrivo velocemente il funzionamento perché mi sembra un’idea tanto semplice quanto geniale (tutte le cose che “dopo” sembrano ovvie hanno qualcosa di geniale).

L’obiettivo di fondo è quello di promuovere l’utilizzo della bicicletta come mezzo di trasporto e commuting urbano nella città di Dublino. Ovviamente i primi interventi da fare sono la creazione di piste ciclabili (che qui non sono separate dal resto della strada con un divisorio in cemento, ne viene generalmente usato il marciapiede, semplicemente gli automobilisti prestano attenzione a chi viaggia in bicicletta), ma poi si pone il problema di incentivare in qualche modo l’acquisto del mezzo (che una volta che uno ce l’ha, perché non usarla, no?).
Ecco che entra in gioco lo schema “Cycle to work”: ci si presenta dal ciclista, si dichiara di voler aderire allo schema in questione, e si sceglie tra una serie di biciclette (non tutte quelle presenti, ma una discreta parte), si selezionano gli accessori (il giubbotto catarifrangente è un must, ma ci sono parecchie altre cose, dai cestini al motore elettrico che vengono spesso selezionate), si prova di essere un dipendente di una delle delle aziende che aderiscono (moltissime, visto che all’azienda non costa nulla di fatto) e ci si porta a casa un bellissimo modulo che, consegnato all’azienda in questione, farà si che quest’ultima paghi al ciclista l’intero importo della bicicletta e degli accessori selezionati (spesso con un tetto massimo di 1000 euro, ma capirai che fatica rientrarci) e scali 1/12 dell’importo dalla vostra busta paga mese dopo mese, per un anno. La parte interessante (altrimenti sarebbe poco diverso da un finanziamento), è che su questo 1/12 non si applicano le tasse, e quindi si ha un risparmio dal 20% al 52% sul prezzo della bicicletta ed accessori, a seconda del regime fiscale a cui è sottoposto lo stipendio stesso.

Ora mi è più chiaro come mai moltissimi colleghi arrivino in ufficio dotati di mantellina catarifrangente e caschetto, ma ancora di più come mai si vedano tantissimi ciclisti in giro anche con i climi più rigidi (che a Dublino non sono così frequenti, per la verità). Io provvederò alla scelta della mia bicicletta nei prossimi giorni (ci vuole qualche tempo perché tutte le procedure vengano messe in pratica, fino anche a due settimane)…

Tanto semplice quanto geniale, no? Ecco perché in Italia non funzionerebbe… :/

Una settimana più tardi…

Eccoci dunque qui, “in Dublin”, ad una settimana di distanza dal mio arrivo a tirare un po’ di somme. Ho cercato di raggruppare gli argomenti per categorie, tanto se ci sono curiosità di altra natura, posso provvedere a chiarire (se a conoscenza della risposta) o a fungere da “inviato sul campo” qualora la domanda richiedesse una verifica in vivo 🙂

Il clima

E’ sicuramente la cosa che tutti indicano come più problematica quando si parla di Dublino. Beh, non si può dire che la mia esperienza (8 giorni su 365) possa definirsi significativa, ma posso dire che in questi 7 giorni ha piovuto, nevicato, fatto caldo e gelato. Mediamente il clima non è stato orripilante, solo ogni santo giorni viene giù… non letteralmente pioggia, sembra che qualcuno abbia preso un vaporizzatore e si diverta ad infastidire i dublinesi. In ogni caso quando il sole fa capolino (e capita spesso), la città diventa gradevole nonostante il sole basso (siamo comunque discretamente a nord), il grigiore degli alberi senza foglie, la strada umida ed il vento gelido che a raffiche spazza la capitale irlandese.

Il cibo

Ero stato avvertito, non posso che ammetterlo: i dublinesi amano i panini. Sarà che sono tutt’ora alloggiato in un hotel, quindi la vastità di scelte che prevede il pub qui sotto non è esattamente il massimo della raffinatezza culinaria, però spesso finisco con il mangiarmi un sandwich farcito in qualche modo stravagante.
Va però detto che cercando con un minimo di attenzione, si trovano cose piuttosto interessanti: in questi giorni sono riuscito a guadagnarmi uno spezzatino alla Guinness (non male) ed un filetto di tacchino farcito con una sorta di salsa di frutta calda (quasi una marmellata ma meno densa) e purè, decisamente interessante.

I mezzi pubblici

Una delle cose che saltano all’occhio piuttosto rapidamente, è la quantità di autobus che girano per la città. Se dovessi fare un paragone con altre capitali europee in cui ho vissuto, penso che citerei il centro di Luxembourg: dove ti giri trovi un autobus, una fermata. Quasi tutte le strade, oltre alla pista ciclabile, prevedono una corsia riservata per bus e taxi, e prendere l’autobus diventa molto rapidamente conveniente anche in termini temporali: anche all’ora di punta si raggiunge facilmente la periferia nell’arco di mezz’ora. Poi che prenderli sia un casino (perché devi avere la moneta giusta al centesimo, non accettano banconote e non danno resto se non con dei ticket che vanno poi riscossi in centro città), che non ci siano gli orari affissi (ma c’è un sistema di informazioni real-time fermata per fermata accessibile anche dal cellulare) e che costino più che a Milano (anche se non tantissimo di più), è un altro paio di maniche. Spero comunque di aver risolto la questione grazie all’entrata in possesso di una Leap Card, una carta ricaricabile che consente di prendere sia l’autobus che il tram (LUAS). Inoltre ho colto l’occasione di questi primi giorni di girovagare per usare un po’ quella che in famiglia chiamiamo la “pedicolare”, soprattutto per rendermi conto di dove stessi andando e per avere il tempo di guardarmi attorno. Va detto che da dove si trova l’hotel (che non è proprio in centro) si arriva a Temple Bar in una mezz’oretta di buona lena e girare per il centro a piedi è un piacere.

La birra

Beh, inutile negarlo: in quanto a birra gli irlandesi capiscono parecchio. La Guinness non è quella che arriva in Italia (poveri voi), e capisco dopo averla assaggiata qui come mai gli irlandesi ne vadano tanto fieri. Difficile comunque entrare in un pub e non trovarci almeno 4 o 5 spine di discreta qualità, oltre ad un corposo assortimento di bottiglie di varia origine. No, la Peroni fortunatamente non c’è.
In compenso gli indigeni tendono a sbevazzare non male: sabato sera ero in un pub qui dietro l’hotel con dei colleghi che abitano nel quartiere e c’era un simpatico ragazzo che si reggeva malapena in piedi (alle 20:00 passate da poco) e continuava a tentare di salire e scendere dalle scale dell’ingresso, rischiando sistematicamente di farsi gli scalini con i denti. Nessuno sembrava comunque particolarmente sconcertato dalla cosa, forse perché troppo intenti a cantare a squarciagola canzoni popolari natalizie al karaoke :/

Il caffé

Che dire, non siamo in Italia e quindi “ça va sans dire”. Eppure caffè decente se ne trova in giro, a patto di voler spendere del tempo alla sua ricerca. In ufficio poi, vista la nutrita comitiva di italiani, si è già da lungo tempo provveduto all’acquisto di una macchinetta del caffè a capsule (purtroppo di una marca a me non particolarmente gradita, ma questo passa il convento). E anche al bar sotto l’ufficio, chiedendo un “espresso”, si ottiene qualcosa di quantomeno bevibile.
Inoltre mi devo ricredere su Starbucks: non è la prima volta che ci vado, ma a patto di non prendere il caffè (o quantomeno non pensare di ottenere del caffè, chiedendolo), non è davvero male. Qualche giorno fa, passeggiando per il centro, mi sono letteralmente goduto (anche perché scaldava non poco) una bella tazzona di… un liquido caffeinato corretto con del caramello: notevole.

La casa

Venendo all’argomento strettamente personale, si, ho trovato casa. Domani pomeriggio dovrei entrare in possesso delle chiavi e potrei cominciare già domani sera a fare quel micro-trasloco che mi spetta dall’hotel alla dimora del prossimo anno. Si tratta di una casetta gradevole, nel quartiere di Inchicore (quello dove si trova poi la sede di Amazon, chiaramente) ma nella zona più tranquilla. Due stanze da letto matrimoniali al primo piano, soggiorno cucina bagno e giardino al piano terra. Costo accettabile, spazio più che sufficiente, ottimo parcheggio e vicino ai mezzi pubblici (tre autobus e la LUAS) ed a un po’ di negozi utili. Credo che meglio di così, in due settimane, non si poteva davvero trovare. Inoltre sono già in possesso di un conto in banca e del mio PPS number (una sorta di codice fiscale, serve per tutto, dagli affitti al pagamento delle tasse), quindi direi che sono a buon punto con “le manovre di inserimento”.

Il lavoro

Ultimo ma non ultimo, il lavoro. La scorsa è stata una settimana piuttosto intensa: ho impiegato quasi 4 giorni ad organizzare la mia postazione (tra installazioni varie di software, permessi da richiedere e lunghe liste di form da compilare, richieste da fare e via dicendo). Poi negli ultimi due giorni ho cominciato una sorta di auto-formazione (attingendo a piene mani dalla sconfinata ed eccellente documentazione interna) e oggi sono persino riuscito a cominciare a rendermi utile, per quel poco che la mia nulla conoscenza dell’ambiente mi consente. In compenso, dopo una settimana, sono decisamente convinto che la scelta sia stata di quelle azzeccate: il ruolo è decisamente interessante, i colleghi gentili, disponibili e simpatici, l’ambiente di lavoro tra i migliori che abbia finora avuto modo di conoscere. E soprattutto la scala di questo sistema è di almeno due zeri superiore a quelle che erano le mie più rosee aspettative: c’è sicuramente spazio per farmi le ossa, sotto questo profilo…

La svolta

Sabato si avvicina a grandi passi. Alle 11:40 prenderò il mio volo “sola andata” per Dublino e la mia vita cambierà ufficialmente, rivoltata come un calzino nell’arco di un mese e mezzo scarso. Inutile dire che sono tremendamente eccitato per tutto quello che questo enorme cambiamento comporterà, per le porte che si aprono, per le opportunità che il salto professionale (ed economico, non lo nascondo) consentirà di raggiungere. Posso immaginare che questi primi mesi di vita in quel dell’Irlanda saranno confusi e incasinati, ma la cosa non mi spaventa (almeno per ora :P).

Nel mese e mezzo intercorso tra la conferma dell’offerta di lavoro da parte di Amazon.com ad oggi, ho scoperto (e fatto considerazioni su) una vasta serie di aspetti del trasloco a cui non avevo mai pensato.

  1. In primis c’è la questione delle ripercussioni che le mie scelte hanno su coloro che mi stanno attorno. Mia moglie, la sua e la mia famiglia, gli amici, il lavoro, i gatti. Ognuno di loro “pagherà” una parte del prezzo della mia scelta di vita: alcuni di loro hanno avuto voce in capitolo (come mia moglie, ovviamente), altri hanno semplicemente dovuto prendere atto della cosa. Per molti, nel lungo termine, ci sarà un ritorno: vuoi perché faranno vacanze a basso costo in Irlanda (:P) vuoi perché la maggior disponibilità economica consentirà probabilmente di ovviare in modo piuttosto efficace al problema della maggior distanza fisica che ci separerà. Per altri sarà invece semplicemente una pagina girata nel libro della vita, un ricordo magari da appuntare.
  2. Altro aspetto è quello delle minuzie. Al di la del trasloco infatti, è impressionante scoprire quante piccole cose ci legano al territorio dove viviamo: bollette, abbonamenti, incarichi. Finché non ci si trova in mezzo a tutto questo, a doversi “sradicare” da dieci anni di vita in un territorio tutto sommato circoscritto, non si riesce a percepire l’impatto che il tempo ha sul nostro essere parte del territorio stesso. E’ davvero notevole.
  3. Infine c’è l’aspetto del calore umano (non in realtà completamente separato dal punto precedente): la maggior gratificazione dell’impegno profuso nelle attività che ho portato avanti in questi dieci anni sta nella quantità di persone che si sono strette attorno a me in queste ultime settimane per condividere un’altra volta qualche minuto insieme, anche solo per una pacca sulla spalla, per un saluto. A tutte queste persone (loro sanno chi sono) va il mio ringraziamento più grande, perché è senza di loro che tutto questo non sarebbe stato possibile.

Da sabato sera quindi, sarò a Dublino, cittadino italiano emigrato. Alla ricerca di una casa confortevole (quasi un rondone alla ricerca del posto ideale dove costruire il nido), di organizzare e pianificare i prossimi anni nella piovosa e meravigliosa Irlanda. E queste pagine, spero, saranno un posto dove raccontarvi tutto questo, se vorrete leggermi.