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Internet sul lavoro è sempre una perdita di tempo?

Slaving for The Man™ Lavoro ormai da qualche anno a diretto contatto con le infrastrutture informatiche di aziende di dimensione e filosofie piuttosto variamente assortite. Mi sono occupato (sempre per conto dei clienti ed in base a ciò che mi veniva di volta in volta richiesto) di limitare o consentire la navigazione web dei dipendenti nei e con le considerazioni più disparate.

Qualche tempo fà, poi, mi sono trovato di fronte ad un dato statistico riportato da downloadblog (che a sua volta cita Arstechnica) che ci dice che mediamente il 25% del tempo lavorativo viene utilizzato per “navigazione personale su internet”. Ora, al di là dell’assurdità del dato in sé (considerando tutti i lavoratori che non hanno accesso ad internet, dovremmo concludere che quelli che ce l’hanno lo usino “a scopo personale” per ben oltre il 100% del proprio tempo lavorativo), voglio provare a porre una questione di fondo, magari dando uno spunto per un minimo di discussione: dove sta il confine tra “personale” e “per lavoro”?

Cerco di spiegarmi: non voglio nascondermi dietro un dito, una significativa parte del mio tempo “lavorativo” è spesa controllando e rispondendo a mail personali, leggendo feed rss tra i più disparati (compresi alcuni fumetti, video più o meno divertenti, articoli di politica), seguendo in modo più o meno assiduo (in modo inversamente proporzionale alla mole di lavoro arretrata, solitamente) alcuni tra i più usati social network. Non solo non voglio nascondermi dietro ad un dito, in realtà, ma anzi non faccio assolutamente nulla per nascondere questa mia attività: spesso e volentieri è tornata comoda in prima battuta proprio ai miei clienti, che hanno usufruito di contatti personali, conoscenze, spunti, idee per migliorare la loro produttività, o semplicemente per ottenere un servizio migliore, da o attraverso di me.

La mia è indubbiamente una posizione felice, sotto questo punto di vista: facendo il consulente, mi occupo essenzialmente di vendere “conoscenza” ed è quindi ipotizzabile un’assimilazione del tempo passato “a zonzo per internet” come parte di un investimento in “formazione professionale”; meno vero potrebbe risultare per un operaio il cui compito sia quello di avvitare lo stesso bullone 8 ore al giorno (anche se in questo caso mi chiedo dove sarebbe l’accesso ad internet ed a che aspetto del lavoro gioverebbe).

Eppure fatico ad entrare in quest’ottica: non sono convinto che nella “società dell’informazione” si possa ancora catalogare l’accesso alle notizie, alla conoscenza, alla Rete come “personale”, scindendo questo in modo netto e puntuale rispetto a quella che invece è parte dell’attività lavorativa.
Si tratterebbe a mio avviso di una concezione piuttosto miope, considerando la direzione che il mondo del lavoro và imboccando… d’altra parte, non sarebbe l’unica…

Sia ben chiaro: non voglio giustificare l’occupazione di risorse aziendali per fini personali. Ciò che intendo dire è che potrebbe risultare poco lungimirante considerare non interconnesse (soprattutto dal punto di vista dell’informazione e della conoscenza) la sfera privata e quella lavorativa…

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Quanto vale il tuo cervello?

vuota ma piena. Di gente “con la testa” (e che testa) ne conosco parecchia. Gente che ha competenze da vendere, carattere e voglia di fare, curiosità, destrezza e soprattutto quell’intuizione che rende… speciali. Dicevo, ne conosco parecchia: penso che l’Italia sia un posto ricco di gente con queste doti (purtroppo se da una parte dai…), per i motivi più disparati (non certo per merito della nostra scuola o delle nostre università, sigh).

Quello che è strano però, è che queste persone valgano pochissimo per la nostra società, per il nostro “sistema paese”, come lo si va chiamando da qualche anno a questa parte. Un interessante articolo del Corriere di oggi riporta qualche cifra sui guadagni e l’impiego dei “cervelloni” nostrani, spinti da anni, come ormai noto, ad aderire alla formula di vita del “cervello in fuga”. L’articolo del Corriere fa particolare riferimento all’aspetto economico della questione (con particolare riferimento al CNR che però è solo un esempio lampante di un malessere diffuso), ma io sono convinto che ci sia dell’altro, e che l’aspetto economico sia solo e solamente una conseguenza di quest’altro.

In Italia non si fa più ricerca. Non la si fà per molte ragioni, legate in un circolo vizioso che taglia letteralmente le gambe a chiunque voglia fare vera ricerca (anche perché ci sarebbe da definire il significato di “ricerca”, eccezion fatta per la “ricerca di base”). Una di queste ragioni è sicuramente quella della precarietà: chi di voi si imbarcherebbe seriamente in un progetto di ricerca, con un orizzonte temporale di quattro o cinque anni, dovendo rinnovare un contratto ogni anno e dovendo per questo fornire “prove concrete” del proprio operato su base annuale? E questo meccanismo coinvolge circa il 50% degli impiegati del CNR, e sicuramente una percentuale molto simile si riscontrerebbe nelle altre realtà che a questo campo si dedicano. Sembra che le istituzioni abbiano un’idea leggermente perversa della ricerca…

Posso portare il concreto esempio di una cara amica, geologa, che da anni si batte per ottenere un livello di vita soddisfacente, facendo ricerca. Quello che ha ottenuto, negli ultimi anni, oltre all’essersi demoralizzata, sono le continue richieste di “consulenze gratuite” di vario genere da parte dell’università.

Purtroppo (come vado blaterando da parecchio tempo ormai) in Italia l’istruzione, la formazione e la ricerca sono visti come costi, perché non portano risultati concreti nel breve termine. Si tratta di un’ottica estremamente miope, che ha già prodotto danni irreparabili al nostro paese i cui danni si cominciano a vedere oggi ed andranno purtroppo peggiorando drammaticamente nei prossimi anni se non verranno presi provvedimenti incisivi (e anche con quelli, non sarà facile mettere una pezza sui danni prodotto da questo atteggiamento).

De cultura e curiosità…

LegoSto leggendo un libro assolutamente illuminante, “Segmenti e bastoncini” di Lucio Russo. Da questa lettura (di cui parlerò più approfonditamente non appena avrò finito il libro ma che comincio con il consigliare a tutti coloro che si interessano di scuole, società e formazione) deriva una mia riflessione, che riporterò qui di seguito, nella speranza di sensibilizzare i miei pochi, sparuti, lettori sull’argomento e magari dare il la ad un po’ di discussione, che non fa mai male.

Mi ritengo una persona curiosa. Non sono certo l’unico (soprattutto tra le persone di cui mi circondo, fatico a trovarne di “non curiose”), ma ritengo di esserlo. E penso che questa mia curiosità, derivando essenzialmente dalla mia formazione scolastica (la scuola) e sociale (i miei genitori), mi abbia, forse ingiustamente, aperto numerose porte e continui ad aprirmene, sulla strada del “successo personale”.
Ora, cercando di individuare quei passaggi quelle fasi della mia vita responsabili di questa mia curiosità, cercavo di paragonare la mia esperienza personale con quella che è la mia (magari errata) percezione della società “moderna”.

1. Sin da piccolo, sono sempre stato circondato di stimoli provenienti, ad esempio, dai libri; ancora piccolissimo (non andavo ancora a scuola probabilmente) mi venivano lette fiabe (“Grogh, storia di un castoro” letto da mio padre la sera prima di andare a dormire è un ricordo ancora vivissimo nella mia mente, e non andavo ancora a scuola), quando sono cresciuto ho cominciato a leggere prima libri con le figure (ad esempio la collana dei libri di “Richard Scarry”), poi libri di più in più difficili, senza praticamente mai smettere, portandomi ad essere ancora oggi un divoratore di libri (chi mi conosce sa quanto difficile sia per il sottoscritto entrare in una libreria ed uscirne a mani vuote). I libri sono uno sterminato patrimonio di esperienze che si possono vivere per interposta persona, fare proprie, sono ricchi di valori (soprattutto quelli per bambini) che sono assolutamente (IMHO) fondamentali nella formazione di una persona e che, pur non potendo sostituire gli insegnamenti dei genitori, li possono efficacemente integrare facendo si che il bambino li faccia propri.

I giovani di oggi non leggono. Non leggono perché non sono spinti a farlo dai genitori, non sono spinti (efficacemente) a farlo dalla scuola, lo sono ancora meno dalla società. Basta entrare in un negozio di libri qualsiasi per rendersene conto, anche volendo ignorare qualsiasi allarmante statistica pubblicata dai nostri mass media: troverete pochissima gente, e quasi nessun minore di 30 anni.

2. Da piccolo, giocavo con i Lego. Sono stati per quasi 10 anni una delle mie attività principali: tornavo da scuola, e passavo 2 o 3 ore a giocare con i mitici mattoncini colorati. Può sembrare una stupidata (che però ritrovo nelle esperienze di molte delle persone che conosco e reputo degne della mia stima), ma i Lego stimolano la fantasia, sono il mezzo per lasciarla correre, per creare. Altre persone giocavano a Trivial Pursuit, con i puzzle.

Oggi il bambino medio non gioca con i Lego: torna a casa, si piazza davanti al televisore, ed attende l’arrivo della cena tra cartoni più o meno violenti, più o meno idioti, più o meno ripetitivi. Anche le trasmissioni dedicate ai bambini, per quel poco che mi è capitato di vedere negli ultimi anni, sono diventate di più in più sciocche. Anzi, spesso sono proprio sparite, lasciando alla pubblicità il compito di “intrattenere” il giovane telespettatore tra un cartone animato e l’altro, facendo sfumare quel poco di interessante che poteva esserci. Anche quando non passassero la loro esistenza davanti ai programmi televisivi, usano il computer (o ancora la televisione) per i videogiochi, anche questi essenzialmente ripetitivi (spesso in qualche modo violenti). Qualcuno poi, più “avveduto”, costringe i bambini a giochi “alternativi”: marionette più o meno derivanti dagli “eroi” dei cartoni animati, con i quali il bambino simula battaglie simili a quelle che vede in televisione. Non c’è più traccia di giochi intelligenti, di creatività, di stimoli di curiosità e/o interesse per qualcosa che non sia fornito dalla società già preconfezionato sotto forma di “pillole”.
Non che crescendo le cose vadano meglio: l’italiano medio oltre a non leggere libri (ne giornali), come abbiamo già detto, passa buona parte del suo tempo libero di fronte alla televisione (guardando programmi di elevato interesse culturale, quali Buona Domenica, Quelli Che il Calcio, i reality show, la pubblicità o quiz televisivi il cui livello culturale medio si è drammaticamente abbassato negli ultimi anni, relegando i programmi di “approfondimento culturale” in seconda o terza serata, su reti di secondo piano), oppure nei centri commerciali, girando inebetiti davanti alle vetrine, nel pieno rispetto del loro ruolo di consumatori per il quale la società (e la scuola) li hanno formati.

3. Anche l’uso di Internet, che per certi versi è una grande rivoluzione culturale, si differenzia drasticamente a seconda dell’interesse culturale e della curiosità delle persone. Io uso internet per varie attività, ma tra i siti che visito maggiormente (al punto da averli nei preferiti), ci sono siti di informazione (giornali online, blog di informazione e siti che approfondiscono alcuni temi di mio particolare interesse, quali il software libero o il mondo stesso di internet), i mezzi di comunicazione (dalla mail ai social network), passando per siti quali Wikipedia (alla quale sono dedicati ben due bookmarks “Quick searches”, uno per la versione italiana ed uno per quella inglese), o anche semplicemente Google, fonte inesauribile di informazioni di prima mano, sia relative a nuovi argomenti di interesse, sia alla ricerca di banali informazioni tecniche, quali percorsi automobilistici o numeri di telefono.

L’uso di internet dell’italiano medio, invece,  è essenzialmente limitato all’uso della posta elettronica (sostanzialmente composta di “catene di sant’antonio”, per quel che posso vedere), e dei client di chat (IM per lo più). Nessuna fonte di informazioni che vada al di là, per una ristretta fascia di persone tra l’altro, dei siti dei grandi giornali su carta.

4. Anche nel mondo del tempo libero “fuori casa”, faccio (purtroppo) parte di una ristretta elite. Il poco tempo libero, lo passo per lo più tra associazioni culturali, eventi “culturali” e uscite con un ristretto numero di amici con i quali discorrere di argomenti quasi mai banali (posso invitarvi se non mi credete :P) davanti ad una birra, e solitamente in posti dove si beve della buona birra, non dove si beve per bere.

I miei coetanei, invece, al di là del tempo speso in giro per centri commerciali o seduti a “perdere tempo” sulle panchine di qualche parco, passano il loro tempo libero in bar e “pub” dove il volume della musica (o a volte della televisione) è cosi alto da impedire di parlare, solitamente a preludio di una serata magari in discoteca.

La società in cui viviamo ha un disperato bisogno di curiosità. Sempre più spesso, parlando di lavoro, mi viene chiesto di consigliare persone “valide” e “competenti”, ma che abbiano quel “qualcosa in più”, quell’intraprendenza, quella capacità di affrontare situazioni appena fuori dall’ordinario, che a mio modesto modo di vedere deriva proprio dalla curiosità. Questa curiosità deve essere coltivata sin da piccoli, sia questo il ruolo dei genitori, della scuola, della società, perché una volta adulti, una volta cresciuti, una volta che manca l’interesse e la curiosità tipici di un bambino, una volta perso il treno, riprenderlo è davvero dura, proprio perché manca la voglia stessa di farlo.

Passato, presente e futuro del web

Un post di Delymyth mi fa scoprire un interessante video

Per quanto le previsioni del futuro siano sempre piuttosto romanzate, ci sono delle cose molto interessanti (l’evoluzione dal punto di vista mediatico è già partita in questo senso e difficilmente si fermerà), che comportano naturalmente alcuni problemi e pericoli che vanno valutati attentamente e tenuti sotto controllo. Second Life esiste già: finchè rimane confinato nell’ambito dei “giochi” ha un senso, quando cerca di soppiantare la realtà, diventa un rischio per i suoi frequentatori… e questo non si applica solamente a Second Life, ma alla Rete nel suo insieme…

LIFOS – Laboratorio Informatico Free Open Source

lifos.jpgAll’attenzione di tutti gli interessati al mondo dell’attivismo del software libero e dell’open source.

A partire dalle importanti esperienze nel panorama dell’associazionismo del software libero in ambito locale e nazionale maturate negli ultimi anni dai soci fondatori, e con una forte volontà di rinnovamento e progresso, nasce in questi giorni, il

LIFOS, Laboratorio Informatico Free Open Source

un’associazione culturale ed un laboratorio sperimentale che mira alla diffusione ed alla promozione del software open source e dei formati e protocolli aperti, basandosi sui principi dell’etica hacker.

Vuole proporsi come realtà importante nel mondo dell’associazionismo del software libero milanese (ed agire come spinta e fonte di slancio), tramite la collaborazione stretta e continuativa con le altre realtà, costituite e non, già presenti e radicate sul territorio.

Anche se la neonata Associazione ha sede a Cinisello Balsamo, essa si ripromette di operare in tutto il panorama della Provincia di Milano, tramite proprie iniziative o tramite sinergie di rete con le altre associazioni già presenti ed attive sul territorio.

Tenendo presente che una prima serata di “presentazione e benvenuto” si terrà questo giovedi, a partire dalle ore 21:00, presso il Laboratorio Innovazione Breda, a Sesto San Giovanni, vi invitiamo a visitare il sito http://www.lifos.org, o a scrivere a info@lifos.org, per ottenere maggiori informazioni.

Il valore del tempo

Non diamo al “tempo” (quello indicato dall’orologio) il giusto valore. Non è monetizzabile, eppure forse vale più del danaro stesso.
E’ parecchio che ci pensavo, in maniera più o meno vaga. La prova è che soltanto sabato mattina ho rifiutato un’offerta commerciale (che in se poteva essere anche quasi interessante, per quel che possono interessare le offerte dei call-center) per questo motivo. Ho banalmente risposto alla gentile signorina che il valore monetario del tempo perso per analizzare la loro interessantissima proposta era maggiore di quanto non avessi poi effettivamente potuto anche lontanamente sperare di risparmiare adottandola (credo di averla spiazzata, perché si è scusate e mi ha salutato).

Questa mattina poi, ho avuto modo di fare quattro chiacchiere con Stefano Zanero, il quale mi ha suggerito un paragone davvero efficace: “una pioggia di soldi, può sempre capitare; ti va bene un affare, e piovono soldi. Una pioggia di tempo, invece, non è possibile”. Io facevo una considerazione forse meno efficace ma altrettanto vera: il tempo non si può accumulare.

La mia vita in questo momento non manca di denaro. Non ne ho da buttare via, questo no, però non posso dire che mi manchi. Ho appena fatto un ordine da 70 euro di libri su Ibs, con la coscienza pulita che questo non mi porterà a dover tirare la cinghia a fine mese. In compenso, ho pochissimo tempo. Ho poco tempo per Laura (che pure attende paziente ogni volta che ritardo), per la gatta (che mi fa le feste ogni volta che rientro a casa e si ingozza la mattina per paura di essere lasciata sola), per il lavoro (ce ne vorrebbe di più per fare tutto quello che mi piacerebbe fare), per l’università (drammaticamente), per andare in bicicletta (è più di un mese che non esco ad allenarmi), per l’associazione culturale, per leggere, per studiare, per uscire a divertirmi, per assaggiare altri tè, per fare un corso di sommelier, per dare, insomma, sfogo alla mia fame di sapere.

Detto questo, la considerazione quale può essere, se non che “il tempo non si può comprare”?  A questo sono arrivato mentre andavo a prendere Laura al lavoro, pur partendo da un concetto apparentemente molto diverso. Pensavo agli mp3, al diritto d’autore, alla necessità di trovare una via di mezzo tra “furto” e “condivisione” dell’arte musicale. Mi dicevo che non è immaginabile che si possa imporre la “non duplicabilità tecnologica” la dove il suono è immateriale (un file). E da questo punto di vista comprendo perfettamente cantanti e musicisti che chiedono che il loro sapere, la loro arte, vengano tutelate.

D’altra parte, io diffondo il mio sapere, la mia arte. Liberamente. Non mi sono mai tirato indietro dallo spiegare qualcosa che so a nessuno. Il mio sapere non è forse anch’esso il derivato di tanta fatica? Non ha forse un valore pari a quello della musica che un cantante propone? Infondo anche io vivo di “sapere”, facendo il consulente.

Ma allora cosa differenzia me dal cantante? Beh, alla fine, la considerazione è semplice: la musica non è solo un sapere, è un piacere. Ed un piacere può essere fruito in tanti modi diversi. Il mio sapere invece deve poi essere messo in pratica. Un mondo in cui tutti conoscano l’informatica, sarebbe bellissimo. Eppure per me ci sarebbe ancora lavoro, perchè un contadino, presto o tardi, dovrà arare il campo, un musicista comporre, un negoziante vendere. E quello è il tempo che a me verrà commissionato per applicare il mio sapere.

Proposte per il 22 giugno

Il 22 giugno, presso lo IULM di Milano, si terrà una manifestazione dal titolo “Condividi la Conoscenza“, che si vuole proporre come punto di partenza e riflessione sull’impatto dei “nuovi media” sulla nostra vita, sulla politica e sull’industria.

Chiamato alle armi dal buon Fiorello Cortiana, ho provveduto questa sera a proporre 3 diversi “nodi di riflessione” a mio avviso particolarmente importanti, e sui quali invito tutti a discutere e confrontarsi. Li riporto anche qui, per dare ulteriore risalto alla lodevole iniziativa.

Quantificazione del valore virtuale
Parlando con un caro amico, non molto tempo fa, mi faceva notare quanto fosse difficile investire in “innovazione” e “nuove tecnologie” in Italia, senza avere adeguati fondi alle spalle.

Questo perchè le banche e le società di venture e capitali, nel nostro paese, misurano ancora la bontà di una proposta di investimento in base alle immobilizzazioni materiali che il richiedente può portare. Questo aspetto è stato ulteriormente evidenziato quest’oggi durante un incontro presso il Politecnico di Milano, al quel ho partecipato.

Nel campo della cultura, quali immobilizzazioni possono essere “spese” per ottenere un investimento? Praticamente solo brevetti e diritti d’autore o di “proprietà intellettuale” (detesto questo termine, perdonatemi), che a mio avviso sono solo briglie e freni all’innovazione, alla produzione di cultura ed alla sua diffusione.

E’ assolutamente necessario che si faccia una seria riflessione, e si trovino delle proposte applicabili ed efficaci, per consentire una quantificazione oggettiva della bontà di un investimento in un ambito come quello della cultura, o dell’industria del software, dove le immobilizzazioni materiali non hanno praticamente necessità di esistere.

Pubblico dominio materiale
Quando si parla di “proprietà pubblica”, si pensa sempre ad aquedotti, autostrade, ferrovie. E quando queste proprietà vengono in qualche modo intaccate dalle privatizzazioni, si sentono salire urla di protesta. Tutto corretto, tutto assolutamente condivisibile, ma tutto, strettamente, materiale.

La privatizzazione delle infrastrutture di comunicazione, tanto importanti per la produzione e la diffusione della conoscenza, non arreca forse un danno paragonabile, se non superiore, alla privatizzazione di acquedotti, autostrade e ferrovie?

Come può una rete di larga banda (ma anche una rete di fonia, o la semplice proprietà ed efficienza di una emittente televisiva statale di qualità) che si confronta con mere logiche di profitto, senza tener conto di quelle che sono le esigenze culturali dei cittadini?

Bisogna che si prenda coscenza che l’infrastruttura di rete e (tele)comuncazione del nostro paese è un bene primario per la stessa economia italiana, e come tale, va difesa e rigidamente controllata.
La rete internet italiana non può essere in mano ad un monopolista (in palese conflitto di interessi, tra l’altro) come Telecom, i cui disservizi sono ormai divenuti barzellette fuori dai confini del nostro paese.

Riduzione del Digital Divide
Il termine “digital divide” purtroppo viene usato in modo piuttosto variegato, quindi la riduzione dello stesso è qualcosa di poco tangibile.
In questo caso, per “digital divide” intendo il divario culturale che impedisce a tutti i cittadini di fruire liberamente dell’innovazione (altro termine abusato, a mio avviso), di fatto creando cittadini di serie A e cittadini di serie B, e contribuendo quotidianamente ad ingigantire questo divario.

A mio avviso sarebbe necessario riflettere su quali ragionevoli proposte possano essere avanzate per combattere efficacemente questo problema.

Un punto da tenere presente è che piu che stimolare un’offerta (formativa?) che già per altro esiste, anche in maniera alquanto diffusa, e prima ancora di trovare i criteri economico/fiscali atti a spingere questa “riduzione”, è importante comprendere che va stimolata la richiesta stessa, rendere i cittadini stessi partecipi di questo processo, perchè nessun tipo di forzatura, nel campo della conoscenza, è in grado di portare benefici a medio/lungo termine.