L’altro giorno, tornando dalle valli bergamasche, ascoltavo il podcast di “On refait le monde“, condotto da Nicolas Poincaré; il tema affrontato, tra gli altri, era quello legato alla crisi del prezzo del petrolio, che comincia a “mordere” anche in Francia. Contemporaneamente, veniva pubblicata la notizia che l’inflazione in Italia è ai massimi da 12 anni, con la stima ISTAT (notoriamente piuttosto produente) che schizza al 3,8% su base annua, spinta da vari prodotti, dalla pasta al pane, dal latte alla frutta, senza dimenticare luce, acqua e gas. In buona parte questi rincari sono riconducibili al problema dell’aumento del costo dei carburanti, a sua volta diretta conseguenza dell’aumento del costo del barile di petrolio.
Un politico francese, in trasmissione, considerava l’ipotesi che ci si trovi di fronte ad un nuovo shock petrolifero, simile a quello che il mondo visse nel ’73. Sebbene le argomentazioni fossero interessanti, l’ipotesi mi lascia piuttosto perplesso, ma non perché mi sembra allarmistica: al contrario mi pare piuttosto riduttivo parlare di shock petrolifero, parlerei invece di un incancrenirsi di una serie di problemi ai quali non si potranno dare, in prospettiva, vere risposte. Cerco di esporre qualche argomentazione a sostegno della mia tesi.
Nel 1973, la crisi fù provocata da un’improvvisa ed inaspettata crisi nell’approvvigionamento di petrolio da parte dei paesi produttori (Opec), sostanzialmente a causa della situazione geopolitica del medioriente. Oggi l’innalzamento dei prezzi è dovuto sostanzialmente alla speculazione selvaggia, prima ancora che al rapporto tra domanda ed offerta: infatti gli stock di petrolio a disposizione dei compratori sono ancora quantitativamente accettabili (pare che gli stoccaggi di terra di diversi impianti produttivi siano colmi al punto di dover ricorrere a stoccaggi galleggianti). Proprio questo aspetto speculativo, pone però le sue radici su un problema reale, legato alle prospettive future sull’uso e consumo dell’oro nero, che fanno dubitare sulla fine di questa odiosa pratica.
Con l’industrializzazione selvaggia della Cina, gli analisti si aspettano che il consumo di petrolio in quell’area del pianeta non faccia che aumentare, nonostante le politiche di prevenzione e riduzione dei consumi che il governo cinese cerca da tempo di mettere in partica (aumento del prezzo del carburante e vari interventi legislativi). Inoltre, in prospettiva, c’è da considerare il prossimo step di industrializzazione dell’India, che storicamente ha un controllo sociale piuttosto ridotto rispetto a quello della Cina, con per contro una popolazione ed un’industria in rapida crescita.
Ad aggiungersi a questa già difficile situazione futura legata essenzialmente all’aumento vertiginoso dei consumi, ci sono da ricordare il costo sempre maggiore dell’estrazione del greggio (sono sempre più rari i giacimenti ricchi e “puliti” da cui estrarre greggio a basso prezzo) ed ovviamente il problema legato all’inquinamento (e quindi al surriscaldamento del Pianeta) sui quali finora si è intervenuti con poca incisività ma che dovrà necessariamente rientrare tra le priorità di quasi tutti i governi nei prossimi anni (soprattutto quelli dei paesi occidentali ed industrializzati): l’uso del petrolio dovrà essere sempre più limitato a quegli ambiti dove non se ne può fare a meno (la produzione di plastiche ad esempio), riducendone il consumo come carburante.
Si tratta purtroppo di una situazione ideale, che non trova riscontri nell’attuazione di politiche ambientaliste da parte dei paesi industrializzati, fatta eccezione per un’adesione (sostanzialmente verbale) al Protocollo di Kyoto, del quale ad oggi non speventano neppure le sanzioni economiche.