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Gli indicatori che ci avvelenano la vita

kids go shopping Ieri sera seguivo in televisione Report (per una volta, non ho dovuto guardarmi la versione registrata). Una puntata mirabile ed illuminante, che parlava di energia, di fonti rinnovabili, di azione dal basso, di alternative reali e concrete, che aspettano solo di essere messe in pratica. Soprattutto, parlava dell’impatto sull’economia delle (poche ma reali) iniziative già in atto.

In particolare, veniva messo alla berlina l’indicatore principe del nostro modello economico, il PIL: quel “Prodotto Interno Lordo” che parifica merci e beni, valorizzando al massimo il consumo senza curarsi di quanto questo consumo faccia poi in realtà il bene del Paese e dei cittadini. Un indicatore che ha efficacemente descritto la nostra crescita economica per molti anni ma della cui imprecisione intrinseca ci stiamo sempre più pesantemente rendendo conto oggi che ci rendiamo conto di essere a bordo di un treno lanciato a folle velocità verso un vuoto che non avevamo visto, abbagliati dalla luce del possesso.

Poco dopo, andando a spulciare il feed reader prima di andare a farmi coccolare dai racconti in dialetto di Camilleri, mi sono imbattuto in un bel post di Luca Conti sull’apertura dell’edizione delle 20:00 del Tg1, che a latere del (giusto e condiviso) elogio alla principale testata della televisione nazionale, mi ricordava come l’auditel sia l’indicatore del successo di una trasmissione televisiva, tentando di estrapolare e quantificare il gradimento della stessa a partire da un ristretto (ristrettissimo?) campione di telespettatori. A che genere di televisione ci abbia portato l'(ab)uso dell’auditel ce l’abbiamo davanti agli occhi tutti quanti: una televisione che fatte salve poche eccezioni, si rivela quotidianamente sciatta, volgare, senza inventiva.

Purtroppo, ci dice bene la matematica che andando ad derivare (e quindi a studiare l’andamento di una data funzione in un arco di valori) si perde sempre qualcosa, allo stesso modo gli indicatori rappresentano la realtà con un punto di vista parziale, e questo andrebbe tenuto in forte considerazione ogni qual volta andiamo ad operare con essi.

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Che vuol dire, “qualità della vita”?

Smog di Roma Secondo l’annuale indagine del Sole 24 Ore, Milano sarebbe la sesta città italiana per qualità di vita, trascinata dal primo posto per “tenore di vita”, 9° per “affari e lavoro”, terzo per “tempo libero”. Peccano la sicurezza (?) che vede il capoluogo lombardo al 100° posto, “servizi ambiente e salute” con il 30° posto e “popolazione” con il 46° posto (su 103 città censite).

Già in molti hanno espresso dubbi sulla classifica in questione, sui parametri che la guidano, e via dicendo. Io voglio in qualche modo rincarare la dose, chiedendo cosa si intenda per “qualità di vita”.

Il denaro sarà certamente importante, la possibilità di fare affari, di arricchirsi e costruire Milano2, possedere Mediaset e Fininvest e diventare infine capo del Governo, ma è sufficiente il denaro per avere “qualità di vita”?

E’ qualità di vita impiegare 30 minuti per attraversare Piazzale Maciachini?
E’ qualità di vita respirare polveri sottili in quantità tale che se finito di fare la polvere in casa, la trovi già nuovamente posata sul davanzale della finestra?
E’ qualità di vita correre come degli ossessi in giro per la città, spiaccicati in metropolitana come sardine, facendo file su file ovunque si vada?
E’ qualità di vita agognare il “weekend fuori porta” per “staccare la spina”?
E’ qualità di vita pagare 800 euro al mese per 100 metri quadri in affitto, nella più remote periferia?
E’ qualità di vita essere una delle città più care d’Italia (e del mondo)?

Ho i miei dubbi…