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La musica “degradata”

16gb ipod touch Mi fa sorridere l’articolo di Repubblica di qualche giorno fa’ (si, lo so, sono sempre più in ritardo, che ci devo fare…) che riporta le dichiarazioni dell’avvocato Monti il quale fa notare come la “nuova legge sul diritto d’autore” prenda una cantonata (rispetto a quella precedente quantomeno) che fa dubitare addirittura che il provvedimento sia voluto:

È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro

L’articolo fa presente come, essendo un mp3 (ma vale anche per i jpeg, ad esempio) un file compresso (in quanto taglia ad esempio le frequenze non o difficilmente udibili dall’orecchio umano) e quindi degradato, questo rientri a tutti gli effetti nei limiti della legge, che attende solo un decreto attuativo per essere applicata. Inutile dire che ci si precipiterà a modificare questo passaggio della legge, soprattutto se al governo dovesse (malauguratamente) finirci il nostro buon Silvio Berlusconi (ma questa è un’altra storia).

Tenendo ben presente che si tratta solo di uno stralcio (e quindi maggiori informazioni potrebbero essere disponibili nelle righe precedenti o successive, che non ne competenze ne voglia ne tempo di leggere) c’è un aspetto che proprio non mi convince: questo stralcio di legge vieta di fatto ai possessori di un’opera coperta da copyright (e quindi qualsiasi opera), di pubblicare il proprio materiale, a titolo gratuito, sul web? Quindi niente Creative Commons (che proprio sui diritti garantiti dal diritto d’autore si basano), niente “pubblicità via mp3 e guadagno con i concerti”? Leggo molti gioire per questo “errore del legislatore”, a me sembra un’altro esempio (ovviamente estrapolando da queste due righe, quindi sicuramente mi sbaglierò) di una legge pensata male e scritta peggio

Inoltre, siamo d’accordo che la libera diffusione delle opere dell’ingegno sia fondamentale per la crescita culturale dell’essere umano. Il mio dubbio però, è sull’attribuzione: se io faccio un lavoro, spendo fatica (un esempio banale: le slides disponibili su questo blog), questa legge consente a chiunque di prenderle e mandarle in giro, senza necessariamente citare la fonte (nonostante sia esplicitamente richiesto dalla licenza Creative Commons ivi applicata). Siamo così convinti che la “libera diffusione”, nel senso di “svincolata da qualsiasi regola” sia un bene, per l’umanità e gli esseri umani? La meritocrazia va quindi a farsi benedire?

D’accordo quanto volete contro i brevetti (di qualsiasi genere siano), ma sul copyright bisogna fare molta attenzione…

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Che fanno gli internauti?

Leds in the night Scopro da DownloadBlog una interessante statistica sull’uso della rete realizzata da Ipoque. Come tecnico del settore, probabilmente faccio un uso abbastanza atipico della rete, e fatico anche a comprendere quali possano essere le principali aree di interesse di un utente medio. Prima di leggere i risultati della statistica sopra citata, ad esempio, avrei detto che l’uso medio della rete da parte di un utente comune fosse sostanzialmente suddiviso tra accesso al web, posta elettronica e qualcosa di peer-to-peer (con poche differenze tra un network e l’altro), con il vantaggio di quest’ultimo di sfruttare la rete anche nei momenti in cui l’utente non è davanti allo schermo.

Invece i risultati di Ipoque, condotta tra agosto e settembre 2007 collezionando qualcosa come 3 petabytes di traffico anonimo, sono davvero interessanti: in Germania, i protocolli peer-to-peer occupano mediamente il 73% della banda con il 20% degli utenti connessi, relegando il traffico web, che pur rappresenta numericamente più del 95% degli utenti connessi, al 10% (più un 5% scarso di downloads “one click” come DivShare) del traffico, la fonia ip a meno dell’1%, IM ed i protocolli di posta elettronica al 0.34% e 0.39% rispettivamente. Altro dato che balza agli occhi, è l’8% del traffico “streaming”, significativamente alto.

Tra i protocolli peer-to-peer più utilizzati, spicca nettamente BitTorrent con il 66% del traffico generato, seguito a ruota da eDonkey con uno scarso 30%: agli altri, briciole. Significativo anche che il traffico peer-to-peer cifrato arrivi a sfiorare il 20% del traffico complessivo, cosa che non avviene certo per la posta elettronica, evidentemente considerata molto meno “delicata”.

Interessante anche quello che viene scaricato tramite il peer-to-peer: i video rappresentano un totale dell’80% del traffico, suddivisi tra film (37%), spettacoli televisivi (21%) e porno (13%), con un contributo da parte dei cartoni anime (7%) e dai video musicali (meno del 1%). Per contro i files audio (i files mp3 sono decisamente più leggeri dei film, generando quindi molto meno traffico a parità di numero) non rappresentano che il 9,19% del traffico, contro il 10% del software (solitamente molto più voluminoso, per contro).

Quello che mi stupisce maggiormente, è il dato relativo alle mail. Con la quantità di spam che gira per internet, avrei detto che rappresentasse una buona fetta del traffico (nonostante le mail siano solitamente files di testo estremamente leggeri). Mi piacerebbe avere un dato quantitativo realistico, in questo senso…

Non la vogliono capire…

L’azienda che sta dietro al formato di cifratura AACS, la AACS LA (che fantasia di nomi -.-) ha oggi minimizzato il lavoro svolto da muslix64, l’hacker che per primo ha trovato il modo (e l’ha implementato tecnicamente, cosa piu interessante) di estrarre la chiave di decifratura dei dischi protetti da AACS sfruttando il fatto che alcuni player che supportano questo formato ne la salvano in RAM senza prima cifrarla. La notizia, riportata da Punto Informatico, è una di quelle che fanno sorridere, ma allo stesso tempo, portano ad una riflessione più profonda che non è nemmeno la prima volta che espongo sul blog, anche se in maniera frammentata.

Fa sorridere perchè sembra il volersi nascondere dietro un dito. La AACS LA infatti ricorda che muslix64 non ha ideato un attacco contro il proprio formato di cifratura, ma contro le debolezze di alcuni player che lo implementano. Verissimo. Peccato che se l’utente vuole vedere il film sulla propria device, e questo film è cifrato, sulla device dovrà esserci la chiave per decifrarlo. E allora, in un modo o nell’altro, sarà sempre possibile ricavarla, ed utilizzarla per estrarre il contenuto cifrato. Si tratta di una tecnologia perdente in partenza.
Si ritorna sempre all’esempio dell’orecchio analogico/digitale. Se voglio usare gli occhi per vedere un film, o un orecchio per ascoltare della musica, questi non possono essere che analogici. Quindi, alla fine, il contenuto del film deve essere convertito in questo formato, indipendentemente da tutte le cifrature che ci possono mettere in mezzo. E se posso vederlo, possono vederlo altre persone con me, possono sentirlo altre persone con me, posso registrarlo (questo può essere reso più difficile, ma una soluzione la si troverà sempre) e diffonderlo.
Certo, si può argomentare che si perde in qualità. Grazie. Ma avete provato a dare un’occhiata alla qualità media dei film che girano sul P2P?? Gli utenti che utilizzano il P2P non puntano alla qualità. Puntano a vedere il film. In un formato almeno accettabile, dal quale di capisca il contenuto del film. Basta. Il resto non conta. Altrimenti, spenderebbero 7 euro (e-dico-sette!!) per andarselo a vedere in una sala cinematografica.
Anche in questo caso, si tratta di una scelta perdente in partenza, che oltretutto porterà a bruciare letteralmente la possibilità di accedere a materiale di qualità superiore, un’evoluzione tecnologica che avrebbe potuto essere davvero interessante anche per chi, come me, non ha ne occhio ne orecchio fini a sufficienza da rifiutarsi di ascoltare un file mp3 o vedere un video di qualità infima.

Invece hanno deciso di perseverare su questa strada masochista, perchè nella loro (distorta) visione del mondo il profitto a breve termine ha la priorità su qualsiasi cosa.
Il DRM è sotto attacco su tutti i fronti. Gli “utenti” valutano i costi di Vista, gli stati lo dichiarano illegale (anche se non l’Italia, ovviamente), le aziende si battono tra di loro perchè il DRM diventa una restrizione anticompetitiva (sempre e solo per soldi, eh, sia ben chiaro), addirittura i membri stessi del board (vedere il caso EMI), un po alla volta, stanno abbandonando la nave che affonda.

Qualcuno infatti se ne rende conto, e magari ne parla, altri invece, sono decisi a perseverare per questa strada, procedendo ad occhi chiusi verso un muro di cemento, incuranti delle urla che di avvertimento che si levano tutt’intorno.

Il modello economico di riferimento, che ha consentito alle grandi Major discografiche e ad Hollywood di fare quelle barcate di miliardi che si trovano oggi a sperperare in questa tecnologia perdente, è cambiato. Questo può essere un bene o un male, dipende dai punti di vista, ma porterà (ed ha già portato) evidenti cambiamenti nel modo di fare e proporre musica e contenuti multimediali.

Chi non si adeguerà, andrà perduto. Chi non avrà la mente sufficientemente aperta ed elastica da saper cogliere le possibilità e le potenzialità dei nuovi media che stanno nascendo, non potrà che vedersi definitivamente sfuggire poco alla volta, tutta l’acqua che cerca disperatamente di trattenere tra le mani, una volta rotto il bicchiere, trascinando con se anche quel poco di buono (no, non gliel’ho mai realmente perdonata, non ne sono capace, mi dispiace) che forse in giro c’era.

Il mio augurio a tutti loro è quello di non soffrire troppo.

PS: Il mondo dei brevetti e della proprietà intellettuale sono solo sfiorati, in questo momento, dal problema, ma l’odore di bruciato comincia già a sentirsi…

Attenzione a quella sentenza…

E’ di ieri la notizia che la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 149 del 9 gennaio scorso, ha annullato la condanna inflitta dalla Corte d’Appello di Torino per violazione della legge sul copyright, a due torinesi colpevoli di aver condiviso files protetti da copyright sulla rete.

In Appello, i giudici piemontesi avevano rilevato una violazione degli articoli 171 bis e 171 ter della legge sul diritto d’autore (633/41) che puniscono chi diffonde o duplica contenuti multimediali protetti dal copyright a scopo di lucro.

La sentenza mette sicuramente in luce il fatto che anche nell’ottica della legge, l’attuale legge sul copyright non sia più adatta ai tempi ed alle tecnologie presenti, e che va quindi rimessa in discussione.
La discussione in materia è accesa, non solo sul fronte legale, dove la SIAE spinge (naturalmente) perchè chi scambia files protetti da copyright in rete sia punito nel modo piu severe possibile (e quando mai…), ma anche sul fronte etico.
La possibilità di rilasciare un’opera in modo da consentirne il legale scambio anche tramite la rete, pur non rinunciando al copyright su di esse, esiste già, e si incarna nelle licenze come le Creative Commons, che sfruttano proprio la legislatura del copyright per consentire al detentore del copyrght di “permettere” una serie di azioni di scambio e fruizione dell’opera.
La dove però è l’autore a decidere di non voler consentire questo diritto, a mio avviso è sbagliato “forzare la mano” in nome della comodità e “profitto” personale, anche se la regolamentazione penale attuale è sicuramente non commisurata all’importanza del reato.
Vanno però trovati gli strumenti legali per impedire che coloro che scaricano da internet le opere soggette a copyright, e poi le mettono in vendita, ricavandone lucro, possano essere puniti per il reato commesso.
Torniamo allo stesso concetto di sempre: la videocassetta posso duplicarla e farla vedere agli amici, anche perché questo mi consentirà di preservarla più a lungo, ma allo stesso tempo non posso rimetterla in vendita traendone lucro.
Come al solito, per cercare di evitare che il maiale scavalchi la recinzione, invece di alzarla, si chiude il maiale nella stalla.

Naturalmente va fatto notare come ci si trovi di fronte ad una evoluzione del mercato delle opere multimediali (musica, video, editoria…), e che come questi cambiamenti siano certamente stati indotti dall’avvento di internet, e di come la grande distribuzione stenti ancora a comprenderne e farne propri i meccanismi.

D’altra parte però, non ci si deve far prendere la mano dai male informati giornalisti, che come al solito traggono conclusioni affrettate sulla base di poche (e spesso incomplete) informazioni.
La sentenza della Cassazione regola un reato commesso nel 1999, quando cioè la legge Urbani non era ancora in vigore. In questi casi, vale la legge più favorevole all’accusato, in questo caso quella precedente il 2004.
Se il reato fosse stato commesso successivamente, le cose sarebbero andate diversamente?
Da questo punto di vista, le parti della sentenza riportate dal Corriere della Sera parlano chiaro:
«Le operazioni di download di materiale informatico non coincidono con le ipotesi criminose fatte dai giudici torinesi. Per scopo di lucro deve intendersi un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto».

Il sondaggio (piuttosto ambiguo per la verità) aperto per l’occasione dal Corriere sul proprio sito web, la dice lunga sulle abitudini degli italiani: quasi l’80% degli oltre 7400 utenti che hanno risposto al sondaggio ha dichiarato di scaricare abitualmente files da internet.

Da oggi (forse) questi utenti non dovranno più preoccuparsi di una sanzione penale, ma solamente amministrativa.