Grazie all’intercessione di alcuni amici, ho avuto l’onore di essere inserito nella giuria di Birra dell’Anno 2017: è stata indubbiamente una “faticaccia” (1367 birre in 29 categorie, prodotte da 279 diversi birrifici – professionisti, quindi – da dividere tra 72 giudici internazionali non è come andare a zappare i campi, chiaramente, ma dal punto di vista del palato è un bell’impegno…), ma il parterre di personaggi che hanno fatto la storia della birra e con cui mi sono trovato seduto al tavolo vale questo ed altro.
Come per tutti i concorsi (in particolare quelli birrari, direi), una ridda di polemiche ha accompagnato l’annuncio dei risultati: non vogliatemene, ma vorrei proprio evitare di entrarci, non mi interessa. Da quel poco che ho letto qua e la, mi pare proprio che si tenda a guardarsi l’ombelico, lanciando invettive in ogni direzione senza cognizione di causa, quindi non vedo proprio ragione di adentrarmi ulteriormente nella discussione.
Quello invece di cui volevo parlare in questo post, è l’interessante discrepanza di qualità che ho notato tra le diverse batterie; in particolare, la qualità generale di alcune batterie a me assegnate, in cui figuravano stili più commercialmente popolari e molto sovente presenti nell’offerta dei birrifici artigianali di tutto il mondo (a beneficio d’esempio ne sceglieremo una in particolare, che chiameremo categoria ‘A’ senza dilungarci troppo nell’identificazione puntuale della stessa) a confronto con stili più “difficili” (sempre tra batterie di cui mi sono occupato personalmente, di cui a mo’ d’esempio sceglieremo la categoria ‘B’, anche qui senza entrare troppo nei dettagli, non è importante).
Nella categoria A, su 20-30 birre da giudicare in 3 flight diversi, i giudici al mio tavolo hanno faticato a trovare una singola candidata che fosse “in stile”; anzi: una buona metà aveva chiari difetti, al punto di farci faticare non poco a selezionare per il round successivo il numero di birre che ci era stato dato come target (ci sono una serie di ragioni tecniche, dal bicchiere alla modalità di somministrazione, per i quali questi difetti potrebbero essere stati accentuati, diventando più palesi forse di quello che sarebbe stato indentificabile in bottiglia o alla spina, ma non è questo il punto).
Anche nella categoria B abbiamo avuto difficoltà ad arrivare al target, ma per ragioni opposte: la qualità delle candidate era decisamente alta, al punto da decidere di lasciar passare alle semifinali più birre di quanto non ci fosse stato assegnato come target.
Non mi soffermerò neppure a menzionare la qualità stellare delle due finali a cui ho partecipato, entrambe relative a stili piuttosto delicati, complessi da produrre e richiedenti periodi di maturazione significativi.
Qual’è dunque la causa di questa lampante differenza?
A mio modesto parere, è proprio la semplicità del processo produttivo a far si che si trovi un numero molto maggiore di “inventati” (nuovi – e vecchi, probabilmente – birrifici che sembrano non avere la più pallida idea di come si faccia birra di qualità) tra le contendenti delle categorie relative agli stili più “commercialmente appetibili”; tra gli stili più “difficili” invece (ovvero quelli che richiedono intervalli tra produzione e mercato significativamente più alti, tecniche o ingredienti più costosi, o che semplicemente richiedono al pubblico un palato un po’ piu “maturo” – brassicalarmente parlando – per poter essere apprezzate), le candidate sono probabilmente riconducibili a birrifici più navigati, che puntano alla qualità del prodotto, portando all’inevitabile miglioramento della qualità generale delle rispettive categorie.
Trovo questa spiegazione particolarmente indicativa del panorama brassicolo italiano, purtroppo, che vede una esplosione di nuove realtà di qualità estremamente variabile, per non meritare una riflessione…
Nei prossimi giorni cercherò di scrivere ulteriormente riguardo l’aspetto qualitativo delle birre disponibili sul territorio italiano, magari provando a dare qualche umile consiglio di “consumatore attento” ai nuovi birrifici.