Torno a parlare di proprietà intellettuale e brevetti dopo tanto tempo. Un po’ perché dopo la (auto)sconfitta del progetto dello Software Patents al Parlamento Europeo l’interesse per la questione è un po’ scemato, un po’ perché si tratta di un argomento che fin troppo spesso passa sotto la totale indifferenza dei mezzi di informazione (grandi e piccoli) e quindi è difficile anche cogliere spunti per parlarne.
Stavolta però, grazie ad un appunto di Stefano Maffulli, mi trovo a considerare un aspetto della proprietà intellettuale che (per quanto ovvio) mi era fino ad ora sfuggito, ovvero il suo uso “inverso”.
La Cina ha infatti ammesso che attraverso l’uso della proprietà intellettuale (ed un governo evidentemente compiacente) ha letteralmente “minato” il mercato interno, costringendo le compagnie straniere a “scambi di brevetti” (esattamente come accade per i brevetti software tra le grosse multinazionali) se vogliono accedere all’economicamente interessante mercato interno cinese.
Ancora una volta il meccanismo dei brevetti e della proprietà intellettuale (che io considero un vero e proprio obbrobrio) si ritorce contro chi lo spinge da anni (in questo caso gli Stati Uniti), costringendolo a fermarsi e riflettere.
Magari è la volta buona che viene dato l’esempio e almeno negli Stati Uniti si riforma il tutto, cancellando lo stupido meccanismo per il quale se io penso una cosa per primo, impedisco a tutti gli altri di pensarla…