Ieri, in coda per tornare verso casa mi sono visto la puntata di domenica di “Che tempo che fà” (inverter e portatile fanno la differenza, quando si è costretti a passare 4 ore la settimana, se non di più, fermi in colonna).
Particolare attenzione ha sollevato, come spesso accade per quella trasmissione, uno spezzone di un’intervista ad uno degli ospiti di Fazio, Antonio Monda, scrittore e giornalista autore di “Assoluzione”. All’interno del libro di Monda infatti, il protagonista (un giovane avvocato) si trova a dover scegliere tra i propri ideali, la propria etica e gli interessi del momento. A causa anche di una citazione fatta poco prima proprio da Monda, mi è subito saltato al naso il paragone con il mondo dei professionisti che operano con l’opensource, che di fatto rinunciano ad una possibile fonte di guadagno in nome di un ideale e della correttezza professionale nei confronti dei clienti.
Sarebbe infatti estremamente comodo (e probabilmente piuttosto redditizio) attuare politiche di lock-in dei clienti, soprattutto quando ci si trova a realizzare per loro soluzioni custom partendo da zero. Invece in nome della correttezza ci si trova spesso a fare molto più del lavoro visibile (spesso i clienti tendono a sottostimare cosa sia la “ricerca e sviluppo”) e a rilasciare almeno metà del valore del prodotto, il codice sorgente, a completa disposizione del cliente (con il rischio, paradossalmente, di svalutarlo ulteriormAnente).
Per questo motivo mi mettono una grande tristezza tutte quelle realtà (e di nomi potrei farne diversi) che si barcamenano a metà strada tra open e closed source: “quando mi fa comodo chiudo il codice e sfrutto anche il lock-in, quando non posso fare altrimenti (perché prendo spunto da codice scritto da altri e rilasciato sotto licenze libere) allora mi vanto di seguire i dettami del software libero”.
Pur comprendendo i motivi che spingono a simili decisioni, trovo questo diffuso atteggiamento profondamente scorretto…
Che serva da riflessione a qualcuno…