Ma a che servono i dazi?

timbro macro La globalizzazione è ormai un dato di fatto. Le merci prodotte in Italia possono essere vendute in tutto il mondo (e questo capita già da parecchio tempo), così come le merci prodotte in tutto il resto del mondo vengono vendute in Italia (o acquistate all’estero dagli italiani, pensando all’acquisto online).

Questo fà molta paura ad una parte dei nostri commercianti, incapaci di adeguarsi ad un mercato allargato dalla concorrenza spietata (fatta tra l’altro anche di aspetti sociali e politici) in cui bisogna differenziarsi per sopravvivere.
Può sembrare naturale che questo solletichi l’attenzione dei politici di schieramento nazional-conservatore, che ribaltando i loro valori nazionalistici sotto forma di protezionismo spinto per il nostro mercato (dopo averne per anni voluto la più totale apertura in nome dei licenziamenti facili, dell’evasione delle tasse, e via dicendo) chiedono o promettono misure protezionistiche: introduzione di dazi doganali per le importazioni, sovvenzioni per le esportazioni, lotta sociale senza quartiere a tutto quello che è anche solo leggermente diverso dal paradigma del commercio italico.
Sorprendentemente però, l’idea del protezionismo del mercato attecchisce anche nello schieramento opposto, tra i politici del centro-sinistra, e non solo in Italia, al punto che il protezionismo è una delle bandiere del candidato democratico alle presidenziali USA Barack Obama.

Tralasciando per un secondo il fatto che se tutti gli stati esteri in cui l’Italia esporta introducessero dei dazi nei nostri confronti (pensiamo ad esempio alle conseguenze che avrebbe l’elezione di Obama negli USA), dell’economia italiana resterebbe ben poco e dei programmi di questi politicanto solo carta da cesso, mi chiedo quali reali benefici porti il protezionismo sul mercato del nostro paese. Prendo spunto da un editoriale di Panebianco sul Corriere ed un post di ieri di Luca De Biase che affrontano molto seriamente la questione, per mettere a nudo qualche punto a mio avviso significativo:

  • L’introduzione di dazi per i prodotti asiatici (che in alcuni settori sono già realtà) costringerebbe i consumatori a rinunciare ad una fetta di prodotti estremamente economici (anche se di dubbia qualità, spesso e volentieri), alzando in prima battuta l’inflazione, che già dalle ultime stime sembra aver preso nuovo vigore. Non è dissimile dal solito concetto degli “extracomunitari che ci rubano il lavoro” ma senza la cui mano d’opera l’economia italiana andrebbe decisamente peggio, ma non bisogna dirlo.
  • L’introduzione di sovvenzioni per le aziende italiane, sotto forma di detassazioni o simili, in un’ottica di sostegno ad un’industria “sotto assedio”, porterebbero queste aziende ad essere un costo per la società (o almeno per coloro che pagano le tasse, sigh). Diventerebbero tra l’altro una forma di dipendenza, in quanto queste aziende non potrebbero più fare a meno delle sovvenzioni statali per sopravvivere: il protezionismo non può durare in eterno (sempre per il fatto di essere un costo), ed una volta che si sarà costretti a rinunciarvi, le conseguenze saranno ancora più gravi e pesanti.
  • L’introduzione di norme protezionistiche che limitino la concorrenza internazionale non incentiva l’innovazione tecnologica (e sociale sotto certi aspetti), ne l’incremento di qualità dei prodotti, del lavoro, della vita di consumatori e lavoratori. In un paese già bloccato sotto questo profilo, un azione politica di questo genere non farebbe che ritardare ulteriormente la ormai mitologica “ripresa dell’economia”.
  • Gli industriali che chiedono a gran voce i dazi, sono poi gli stessi che “delocano” la produzione nei paesi del secondo/terzo mondo per poter ridurre all’osso il costo della mano d’opera. L’introduzione di dazi sarebbe una forma di ipocrisia assolutamente inaccettabile: con una mano sfrutti le condizioni a te favorevoli, con l’altra imponi un ulteriore forma di penalizzazione della tua concorrenza. Sono sicuro che i dazi non riguardarebbero i prodotti italiani che “rientrano” dall’estero, vero?
  • Infine, ho idea che parte della paura che alcuni nostri potenti hanno della concorrenza internazionale sia essenzialmente legata alla perdita di vantaggi locali quali amicizie, tangenti e favori ai potentati locali, che a livello internazionale funzionerebbero meno efficacemente.

Non sono assolutamente convinto che la strada del protezionismo sia quello che serve all’economia italiana. A mio avviso la politica farebbe molto meglio ad impegnarsi affinché vengano sanciti a livello internazionale i diritti dei lavoratori nei paesi che vorrebbero oggetto di dazi, affinché venga posto un freno alla delocalizzazione schiavista dell’industria occidentale (poi vedrete quanti posti di lavoro in più ci saranno, altro che “grandi opere”).
Cominciamo ad esempio ad imporre alle aziende che vogliono vendere in Italia (tutte, italiane comprese) la certificazione del rispetto delle più elementari norme in materia di diritto del lavoro (sicurezza, paghe, minimi salariali, orari di lavoro…).

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3 pensieri su “Ma a che servono i dazi?

  1. fc

    “Delocalizzazione schiavista dell’industria occidentale”? Scusa l’ironia, ma, secondo te, aprire una fabbrica in un paese emergente, secondo le leggi che là sono in vigore, è schiavismo?
    Ma davvero pensi che i paesi asiatici e l’Europa dell’Est siano pieni di gente pronta a vendere la propria pelle per un tozzo di pane ai cattivi capitalisti occidentali?
    Detto in maniera più seria, il tuo argomento sottintende che esistono un protezionismo cattivo (quello degli industriali) e uno buono, cioè quello “sindacale”. Questo, purtroppo, è un altro argomento alla Tremonti. Le norme sui diritti del lavoro non esistono solo da noi, e, soprattutto, sono il frutto dello sviluppo, non la sua precondizione. Imporre ai paesi emergenti di darsi norme occidentali senza aver raggiunto la produttività occidentale significa sottrarre loro una fetta di sovranità e imporgli delle tasse che dovrebbero avere il diritto di decidere da sé.
    Io trovo che ci sia sempre molta ipocrisia (nel tuo caso di certo non voluta né prevista) nelle posizioni di chi invoca dei vantaggi per sé sostenendo che questi vanno a beneficio di altri.
    Però ipocrisia sempre rimane. Come scrivi anche tu, i dazi costituiscono un prelievo sul consumo, e favorirebbero una parte degli occupati UE, ma solo scapito dei consumatori e dei lavoratori dei paesi emergenti, e la tua tesi che ciò favorirebbe l’occupazione in Europa, è solo una pia illusione.

    fc

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  2. alt-os Autore articolo

    @fc, ti ringrazio per il commento, che esprime senza dubbio un punto di vista interessante e differente dal mio (che senso avrebbe esprimere il mio se non c’è poi un confronto :P).
    Sono sinceramente convinto dell’esistenza di industriali che “delocalizzano” in paesi “emergenti” (preferisco parlare di secondo e terzo mondo, perché ritengo renda maggiormente l’idea, visto che di “emergere” non gliene si lascia quasi mai l’opportunità reale) con il solo fine di massimizzare il profitto personale, andando brutalmente a ridurre il costo della mano d’opera, spesso e volentieri giovandosi dell’inadeguatezza delle leggi sul lavoro dei paesi in questione.

    Sull’esistenza di questo genere di individui (che naturalmente non rappresentano la totalità degli industriali che “delocalizzano”, ci mancherebbe altro) hanno già fornito più che abbondante documentazione numerosi giornalisti ed autori di libri: a mente mi viene Naomi Klein con il suo “No Logo”.

    Non voglio naturalmente criminalizzare l’apertura di impianti industriali in paesi di questo genere: questo è infatti (anche) fonte di nuovo lavoro per la popolazione locale e rappresenta quindi una importante fonte di sostentamento. Quello che invece volevo sottolineare, era come le leggi vigenti nel nostro paese sono espressione dei valori che il nostro popolo si è dato. Senza voler arrivare agli estremismi americani della “diffusione dei propri valori” (quindi evitare non solo l’intervento a mano armata per imporre la democrazia, ma anche banalmente l’esportazione forzata di leggi in attuazione nel nostro paese su cui tu giustamenti metti in guardia), trovo profondamente ipocrita pretendere l’attuazione di certi valori sul nostro territorio perché tornano utili personalmente e poi infischiarsene degli stessi valori quando si passa la frontiera e non si è più coinvolti direttamente.

    Cercando di chiarire il mio pensiero (che su questo frangente esula in realtà dal mero discorso legato al protezionismo), non voglio “imporre ai paesi emergenti di darsi norme occidentali senza aver raggiunto la produttività occidentale”, ma trovare un compromesso per cui sia conveniente garantire anche ai lavoratori di questi paesi alcuni dei diritti che vengono garantiti in Italia…

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  3. fc

    @alt-os
    Io preferisco parlare di paesi emergenti anziché di secondo e terzo mondo, perché, fortunatamente, il mondo è cambiato e non di poco grazie alla globalizzazione. Cina, India e Sud-Est asiatico non sono forse più nemmeno emergenti, ma addirittura emersi, e se vi rimangono importanti sacche di miseria, non si tratta di miseria senza speranza. Anche l’Asia Centrale, parti del Medio Oriente e dell’America Latina, per non parlare dell’Europa dell’Est, sono usciti dalla stagnazione grazie all’aumento degli scambi e all’integrazione economica. Il terzo mondo rimane soprattutto in Africa, e anche lì soprattutto è tale a causa dei conflitti che dilaniano quel continente.
    Quanto ai vari movimenti no-global e ai loro guru, permettimi di essere scettico sulle loro reali motivazioni. Se è pur sempre vero che le trasformazioni economiche non possono avvantaggiare tutti, è tuttavia sbagliato cercare di classificarne gli attori in perdenti e vincenti.
    L’idea che la ricerca del profitto sia sbagliata è figlia di una concezione del mondo nel quale la relazione naturale fra gli uomini è lo sfruttamento, ma l’impresa moderna è ben diversa da questo stereotipo. In realtà un’impresa è competitiva quando offre merci e servizi migliori a costi minori: i primi beneficiari della competitività sono i consumatori, non gli azionisti. Senza competitività non c’è ricchezza diffusa.
    In un’economia sana la riduzione del costo della manodopera si traduce in prezzi più favorevoli per i consumatori, e siccome questi oggi, nella loro stragrande maggioranza, non sono “i ricchi”, ecco che ciò che si perde da una parte viene riguadagnato dall’altra.
    Quanto ai valori del lavoro a cui fai riferimento, non esiste via d’uscita al fatto che il valore economico del lavoro è legato alla sua produttività. Possiamo e dobbiamo simpatizzare con i lavoratori dei paesi più poveri, ma non fingiamo che sia un segno di amicizia nei loro confronti pretendere di sostituirci alle loro lotte, tassare i loro manufatti ed escluderli dal nostro mercato.
    Ciao.
    fc

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